Il negoziato, solo rimedio al caos libico

Nonostante i disastri provocati proprio da un improvvido intervento militare nel 2011, ci sono ancora commentatori, analisti, politici che si ostinano a ripetere che il caos libico possa essere risolto solo con una robusta azione di forza internazionale. Si vede che le lezioni della storia sono difficili da apprendere. Il groviglio libico è fatto di molteplici elementi. Anzitutto, la divisione del Paese in almeno due grandi fazioni, quella "legittima" (perché riconosciuta dalla comunità internazionale) del Parlamento di Tobruk, e quella insediatasi per le vie di fatto a Tripoli. Quest'ultima ha una matrice riconducibile all'islamismo politico, ma le cose non sono così semplici. Il ruolo della componente etnica e tribale è ancora forte in Libia, e ciò non fa che moltiplicare le pretese di governo sia a livello locale che nazionale, con una pletora di interlocutori che considerano sé stessi come la soluzione al disordine e all'anarchia. In questo scenario già di per sé intricato, si inserisce l'Isis, il sedicente stato islamico, che ha occupato la roccaforte di Sirte, snodo nevralgico economico e militare, con un'ulteriore dimostrazione di violenza omicida anche contro la popolazione civile. Inoltre, la dissoluzione di un governo centrale ha favorito il prosperare di traffici di ogni genere, primo tra tutti quello - crudele, barbaro e assassino - di essere umani, migrant da ogni dove che cercano la salvezza e il futuro in Europa. Pare infatti che la "mente" dello smistamento dei migranti sia proprio in Libia. Ecco perché la soluzione delle molteplici crisi libiche passa solo dalla costruzione di un credibile governo di unità nazionale, capace sia di battere l'Isis sia di fermare le stragi dei richiedenti asilo nel Mediterraneo. Come ha ormai riconosciuto anche l'Egitto di Sisi, il negoziato, per quanto lungo e lento, è l'unica soluzione al caos libico che possa dare una qualche garanzia di stabilità. È quello che per diversi mesi ha tentato di fare l'inviato delle Nazioni Unite, Bernardino León, con varie sessioni negoziali a Ginevra e altrove, spesso con scarso appoggio internazionale. Risultato ora raggiunto da Martin Tobler, nuovo mediatore dell'ONU, che ha trovato un sostegno molto più deciso dalla comunità internazionale, materializzatosi nell'approvazione all'unanimità da parte del Consiglio di Sicurezza, il 23 dicembre 2015, della risoluzione sul futuro politico della Libia, che legittima e ufficializza l'accordo politico firmato il 17 dicembre 2015 in Marocco. Ora le parti hanno 30 giorni per la formazione di un governo di unità nazionale con Tripoli capitale. Una strada impervia e irta di ostacoli, ma l'unica percorribile.

Religion, Harmony, and Sustainable Development

Record of the G20 Interfaith Summit: Religion, Harmony, and Sustainable Development (Istanbul, 16-18 November 2015) by Sherrie Steiner

Pasquale Ferrara spoke about challenges associated with linking religious freedom to sustainable development. Although speaking of religious freedom in relation to capitalism may be new, including religious diversity in economic development is not. In Italy, religious orders were important during medieval times and Islam has been historically recognized for providing an important communitarian link in trade relations. The challenge is to disentangle the idea of the liberal economy from western style conceptions of the good society. This is important because the western approach to liberal institutions is highly contested. Rather than promote modernity as economic liberalism, he challenged listeners to see the world from a different perspective. At a global level, he asked about the role religions might play in denouncing inequalities and making proposals for protecting global public goods such as water, air and biodiversity. He provided an example from the Focolare Movement in Brazil that protected economic freedom and took care of these needs by rearranging profits. About 800 companies chose to split profits between investing in their company, helping the poor, and fostering a culture of sharing/giving. This movement is having an important impact on communities. This model illustrates a way of accommodating religious freedom and individual freedom that is environmentally and socially sustainable (Sherrie Steiner, Record of the G20 Interfaith Summit: Religion, Harmony, and Sustainable Development).



L'accordo di Losanna

L'accordo di Losanna sul programma nucleare iraniano può essere letto in due modi. In primo luogo, come un’intesa su alcuni meccanismi che dovrebbero garantire la comunità internazionale sul fatto che l'Iran non intende dotarsi di un'arma nucleare, salvaguardando al tempo stesso il diritto di Teheran di produrre energia nucleare «civile». E’ un accordo quadro, con tre elementi fondamentali: limiti all'arricchimento dell'uranio da parte dell'Iran; progressiva eliminazione delle sanzioni imposte a Teheran; ispezioni intrusive e pluriennali per verificare il rispetto di quanto concordato. L'intento perseguito dai negoziatori rientra nella politica di non proliferazione nucleare; anche se, al momento, ci quattro paesi dotati di armi nucleari al di fuori dal regime di non proliferazione: India, Pakistan, Corea del Nord e, secondo molti analisti, Israele. 
La seconda prospettiva da cui guardare all'accordo di Losanna è legata l'attuale situazione di sconvolgimento del Medio Oriente, sia sotto il profilo della sicurezza che dal punto di vista degli assetti geopolitici. Basti pensare al rischio di disfacimento di due paesi-chiave come la Siria e l’Iraq, alla lotta per il potere in Libia, al pericolo di un’ulteriore degenerazione della contrapposizione tra gruppi etnici e religiosi in Yemen - sullo sfondo dell'avanzata dell’Isis, prima organizzazione islamista violenta e militarmente strutturata a volessi farsi «stato» a spese di quelli preesistenti. In questo scacchiere in tragico disordine i due paesi che realmente possono fare la differenza, in senso negativo o positivo, sono senza dubbio l'Arabia Saudita e l’Iran. Ryad e Teheran hanno ingaggiato una dura lotta a distanza - e per procura- per l’egemonia nella regione, capeggiando rispettivamente il campo sunnita e quello sciita. Ma è solo l’etichetta ad essere religiosa, le ragioni sono ben più concrete e legate ad una logica di potere. Gli Stati Uniti, per la prima volta, in nome della stabilità sono pronti ad aprire a Teheran e a mettere alla prova il rapporto con i Sauditi e perfino con Israele. Ci sono rischi, ma il medio Oriente è in fiamme.

La Tunisia, "vicina" dell'Europa

Sotto l’emozione e l’orrore per le azioni terroristiche condotte in Tunisia “per conto” dell’Isis, ci si è dimenticati del fatto che questo piccolo Paese dirimpettaio dell’Italia ha faticosamente e tenacemente costruito un nuovo sistema politico e un nuovo quadro costituzionale, ha sottoscritto un nuovo patto fondativo che rappresenta la sua forza e al tempo stesso, probabilmente, anche la ragione per cui è nel mirino degli estremisti violenti. La Primavera Araba, iniziata in Tunisia nel 2010, proprio nella Tunisia ha ora l’unico modello funzionante, grazie al coinvolgimento di tutti gli attori nazionali, incluso l’islamismo politico, nel progetto di un nuovo Paese. Rachid Gannouchi, leader del partito di ispirazione islamica Ennahda, non solo ha nettamente condannato l’ultima serie di attentati, ma ha anche affermato senza alcuna ambiguità che l’Isis rappresenta una minaccia per la Tunisia, per l’Islam dialogante e per l’Europa. Non è da sottovalutare inoltre che dalla Tunisia provengono centinaia di giovani che hanno deciso di arruolarsi nelle milizie del Califfato. La transizione alla democrazia avviata in Tunisia non sarà perfetta, come del resto avviene in tutte le fasi di passaggio da un sistema politico-istituzionale ad un altro, ma ha mostrato una tenuta che fa ben sperare sul suo consolidamento e sugli sviluppi futuri. E’ ovvio che l’interesse a far deragliare questo delicato processo è grande da parte di tutti i gruppi che scommettono invece sul caos e su una logica di guerra di tutti contro tutti. Se davvero vuole che la Tunisia abbia successo in questa opera di ricostruzione sociale e politica, allora l’Europa deve rispettare lo stesso significato del gergo politico che ama usare, come quello di “vicinato”, riferito in particolare al Mediterraneo. Trovarsi accanto dei vicini è una cosa, sceglierli davvero come amici è un’altra. E’ questa operazione che l’Europa deve compiere con la sponda Sud, e in special modo con la Tunisia, uscendo da una logica basata solo su finanza, mobilità e mercato, per entrare in un vero e proprio partenariato, fondato sulla pari dignità e sul reciproco impegno.

Obama tra scelte e necessità


All’inizio del mandato di Obama, la politica estera del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti fu caricata di eccezionali aspettative, in parte giustificate dal carattere multilaterale e dal realismo etico che la Casa Bianca avrebbe voluto imprimerle. Obama si è trovato però non solo a dover raccogliere la difficile eredità dei due conflitti iniziati dal suo predecessore – e delle ripercussioni che essi hanno avuto sul teatro mediorientale e sui rapporti con il mondo arabo-islamico –, ma a dover agire proprio nel momento di ridefinizione della mappa del potere mondiale. Il presidente americano, in sostanza, è stato costretto dalle circostanze a ripensare il ruolo degli USA in un mondo in cui l’egemonia occidentale incontra crescenti resistenze.
Morten Wetland, ambasciatore della Norvegia alle Nazioni Unite dal 2008 al 2012, ha recentemente affermato di aver vissuto il suo momento più imbarazzante al Palazzo di vetro in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace per il 2009 a Barack Obama, da poco eletto 44° presidente degli Stati Uniti.1 Secondo il racconto di Wetland, il suo collega a Washington, Wegger Strømmen, lo avrebbe chiamato per informarlo di aver ricevuto una reprimenda dal Chief of Staff della Casa Bianca (all’epoca Rahm Emanuel), poiché il premio, contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, avrebbe messo Obama in una difficile posizione. Pare che Emanuel abbia affermato, in tale circostanza, che il Nobel per la pace avrebbe finito per restringere la libertà del presidente di stabilire in piena autonomia la propria agenda in campo internazionale. L’episodio è, in qualche modo, emblematico dell’operato di Obama in politica estera. Da una parte, la volontà di stabilire una netta discontinuità rispetto al recente passato; dall’altra, la necessità di tener conto di una realtà internazionale in una fase di radicale ristrutturazione di equilibri, di alleanze, di rapporti di forza.
La motivazione del Nobel, in verità, conteneva i due elementi su cui Obama aveva annunciato di voler riformulare la politica estera americana: il multilateralismo e il dialogo come “regola d’ingaggio”. Più in generale, l’articolazione del ruolo americano nel mondo appariva ispirarsi, nella visione di Obama, a un sano realismo etico dopo gli eccessi ideologici e persino messianici dei neoconservatori durante gli otto anni di presidenza di George W. Bush. Non v’è dubbio che all’inizio del suo first term (2009-12) Obama puntò a cambiare anzitutto il clima dei rapporti internazionali. Basti ricordare i messaggi al mondo islamico (e in particolare il discorso del Cairo del 4 giugno 2009) e l’iniziativa a favore del disarmo nucleare lanciata sulla piazza di Praga il 5 aprile 2009 (“l’opzione zero”), senza trascurare il recente annuncio di una nuova fase nelle relazioni con Cuba dopo decenni di embargo e politica di isolamento nei confronti di L’Avana. Oggi bisogna riconoscere che di realismo ce n’è stato tanto (l’uccisione di Osama bin Laden con una riuscita incursione militare in pieno territorio pachistano; l’uso di droni in funzione antiterrorismo ma non privi di “effetti collaterali” – letali – sui civili; la mancata chiusura del centro extraterritoriale di detenzione straordinaria di Guantánamo; la questione dello spionaggio politico su vasta scala attraverso i programmi della National Security Agency), mentre l’etica ha fatto molta più fatica a farsi strada nelle complicazioni crescenti della politica mondiale. Occorre però, anzitutto, ricordarsi del punto di partenza. Obama raccolse la complessa eredità di due conflitti (Afghanistan e Iraq), di un profondo risentimento nel mondo arabo-islamico per una “guerra al terrorismo” le cui modalità, secondo alcuni analisti, alimentarono ulteriormente i suoi focolai e i suoi centri di incubazione, di una reazione di autodifesa dinanzi alla teoria del contagio (la diffusione ineluttabile della democrazia liberaldemocratica di stampo occidentale e di un modello economico globalizzante di tipo liberista), di uno scontro di civiltà divenuto una profezia che si autoavvera.
Obama ha mantenuto la promessa di mettere fine all’intervento militare in Iraq, mentre è in piena attuazione il programma di disimpegno dall’Afghanistan. Nel frattempo, però, altri fronti si sono aperti, persino più impervi e intrattabili. La questione libica, lasciata sostanzialmente nelle mani degli europei, ha ancora oggi – per dire il meno – le fattezze di una missione largamente incompiuta. Il dilemma siriano, con Assad ormai internazionalmente screditato, da un lato, e la minaccia dello Stato Islamico, dall’altro, costituisce un irrisolto fattore di instabilità strutturale e persino esistenziale rispetto alle entità statali dell’intera regione. Ciò che sembra accomunare queste situazioni, pur oggettivamente molto diverse, è la questione della sostenibilità (dubbia o assente) del quadro istituzionale, politico, sociale ed economico, che emerge in tutta la sua fragilità dopo gli interventi internazionali. È mancata la gestione della ricostruzione politica e istituzionale, nonostante la retorica dell’institution building. Il nocciolo della questione riguarda la volontà e la possibilità non solo degli Stati Uniti, ma anche degli altri principali attori della politica mondiale, di assumersi l’onere – peraltro in base a criteri non certamente coerenti e con metodi non necessariamente in linea con la legalità internazionale – non solo dell’occasionale abbattimento dei regimi illiberali e autoritari, ma anche e soprattutto della ricostituzione del patto nazionale, di un progetto politico minimamente condiviso in società e paesi profondamente lacerati. Ciò richiede intenzionalità politica, ma anche risorse umane e finanziarie, sempre più difficili da mobilitare in un contesto di generale “sglobalizzazione” e di ripiegamento sull’orizzonte delle necessità nazionali.
A tratti Obama è stato considerato esitante (è stato definito, ad esempio, il “presidente Amleto” o il “procrastinatore”). Tuttavia, c’è da chiedersi se in certe circostanze difficili da decifrare (si pensi all’ipotesi, poi rientrata anche per l’opposizione russa, di un “attacco punitivo” ad Assad per l’uso di armi chimiche nella guerra civile siriana) non sia meglio soppesare tutti i fattori in gioco piuttosto che precipitarsi a compiere scelte improvvisate e improvvide, che potrebbero in seguito rivelarsi irreversibili. La verità, come sempre, sta nel mezzo; eppure non sarei del tutto sicuro, come ha scritto Michael O’Hanlon, che, non essendoci certamente alcun bisogno che Obama diventasse un altro George W. Bush, forse talvolta avrebbe potuto essere un po’ più Ronald Reagan.2 La rappresentazione di un mondo “binario”, basata sulla narrazione della lotta del bene contro il male, se non è mai stata convincente, nell’intricato panorama internazionale contemporaneo costituisce un rischioso azzardo.
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è quella che più ha messo alla prova le prospettive ricostruttive di Obama. Nel giro di pochi anni un vecchio ordine autoritario è crollato in molti paesi (Tunisia, Libia, Egitto), tanto da far prefigurare una fioritura democratica (questa volta “endogena”) nell’intera area. Oggi paradossalmente, dopo l’appoggio che l’Amministrazione americana aveva coraggiosamente dato alle primavere arabe, il punto di ancoraggio della politica mediorientale di Washington (oltre a Israele) è nuovamente l’Egitto, tornato sotto il controllo di classi dirigenti forti e tradizionali, mentre persino l’Iran (con un certo allarme da parte delle monarchie del Golfo) appare, oggettivamente, come un potenziale alleato strategico regionale contro un irredentismo sunnita violento e aggressivo.
Il conflitto israelo-palestinese è quello su cui si registra un preoccupante stallo, se non una regressione. Il riconoscimento della statualità alla Palestina (come Stato osservatore non membro) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 2012 (con i susseguenti riconoscimenti bilaterali, come avvenuto, di recente, da parte della Svezia) non si è tradotto né in progressi politici né in svolte negoziali, al contrario. Il tentato braccio di ferro con il primo ministro Netanyahu sugli insediamenti illegali si è risolto in un sostanziale nulla di fatto. La determinazione a imprimere un nuovo impeto alla diplomazia sotto la spinta degli Stati Uniti si è scontrata con le crescenti esigenze securitarie di Israele e con le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza (Pillar of Defense nel 2012 e Protective Edge nel 2014). Non v’è dubbio che proprio il conflitto israelo-palestinese rappresenti (almeno finora) un vulnus nel quadro della politica estera dell’Amministrazione Obama.
All’inizio del mandato di Obama non erano mancate le preoccupazioni degli europei per l’accento posto sulla dimensione “transpacifica” oltre che “transatlantica” della proiezione internazionale degli Stati Uniti, a riprova della traslazione di potere in corso su scala globale. Questo orientamento è stato precisato nel 2012 nel documento strategico Pivot to East Asia, in cui si delinea un approccio ambizioso alla regione, basato sul rafforzamento delle alleanze bilaterali di sicurezza, sull’approfondimento delle relazioni “operative” con i paesi emergenti dell’area (inclusa la Cina), sul rilancio della cooperazione con le istituzioni multilaterali regionali (in particolare l’ASEAN), sull’espansione dei rapporti com merciali e sugli investimenti, su una presenza militare a largo raggio e sui progressi nell’ambito della democrazia e dei diritti umani. Tuttavia, la storia non ne vuole sapere di strategie scritte a tavolino e Obama è stato costretto dalle circostanze (che portano il nome di Putin), oltre ad accantonare l’idea di una ripartenza nei rapporti con Mosca, a rifocalizzarsi, se non sull’Europa in quanto tale, almeno sull’area eurasiatica. La crisi ucraina (largamente sottovalutata ai suoi esordi) e l’annessione della Crimea (invece largamente prevedibile) hanno riproposto con forza il problema della sicurezza europea, che paradossalmente proprio il troppo rapido e poco meditato allargamento a est dell’alleanza di sicurezza euroatlantica (la NATO) aveva indebolito, anziché rafforzare. Obama si è trovato a gestire il ripensamento del ruolo degli Stati Uniti proprio nel momento più critico del ridisegno della mappa del potere mondiale. Si tratta, in definitiva, della fine dell’ordine egemonico liberale messo in piedi dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti, a mo’ di un “Leviatano liberale”, secondo la plastica definizione di John Ikenberry, «assunsero il compito di realizzare e dirigere un ordine internazionale organizzandolo intorno a istituzioni multilaterali, alleanze, relazioni speciali e rapporti con Stati-clienti. Si trattava di un ordine politico gerarchico dotato di caratteristiche liberali. Definito in termini di erogazione di sicurezza, di creazione di ricchezza e di avanzamento sociale, quest’ordine egemonico liberale è stato, con tutta probabilità, l’ordine di maggior successo della storia mondiale».3 Quest’ordine liberale, se non proprio finito, è quanto meno sottoposto a forti tensioni e soprattutto viene contestato in molte aree del mondo, mostrando segni di progressivo disfacimento, come ha denunciato Richard Haass.4 Tuttavia, non è ancora chiaro quale possa essere il quadro politico adatto a regolare le nuove relazioni internazionali. Charles Kupchan ha parlato dell’avvento del “mondo di nessuno”, vale a dire un sistema internazionale privo dell’impronta di un egemone chiaramente identificabile.5 Per Kupchan, se gli ultimi due secoli hanno visto l’egemonia materiale e ideologica dell’Occidente nella politica internazionale, il mondo del futuro prossimo non sarà dominato da un singolo paese, da una particolare area regionale o da un solo modello politico. Stati Uniti e Unione europea si ritroveranno ben presto in un mondo di profondi cambiamenti, in cui nessuna delle potenze emergenti avrà la forza necessaria per esercitare un’egemonia globale. Una cosa è coordinare le iniziative politiche, come avviene ad esempio per i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), altra cosa è condividere una visione coerente del nuovo ordine internazionale. Questi paesi sanno quello che non vogliono più, cioè un mondo ancora dominato dall’Occidente, ma sarà più difficile che possano immaginare e realizzare un’alternativa politicamente praticabile nel breve periodo.
Obama ha condotto la barca (o il transatlantico) della politica estera americana in queste acque agitate. Sarebbe gratuito definirlo il primo presidente dell’era post americana, perché gli Stati Uniti sono ancora un punto di riferimento, e non solo per l’Occidente, in molti campi e hanno dimostrato una resilienza che la ripresa economica americana non fa che confermare. La complessità mondiale insegna che ormai non può essere né un solo presidente – per quanto carismatico, illuminato e determinato – né un solo paese – per quanto economicamente o militarmente potente – a fare la differenza e che la via d’uscita dal disordine mondiale non consiste nell’affannosa ricerca di un nuovo egemone o di un nuovo concerto delle potenze, quanto nell’immaginare e costruire un ordine condiviso e pluralista, per sfuggire dal ciclo dell’egemonia delle iperpotenze ed entrare in quello della democrazia internazionale. Ugualmente datata è la visione di un “ordine mondiale”, recentemente riproposta da Henry Kissinger,6 basata ancora sugli assunti vestfaliani della sovranità assoluta degli Stati. Come ha scritto Anne-Marie Slaughter7 oggi la questione di fondo della politica internazionale non è l’equilibrio di potere, o una qualche riedizione su vasta scala del concerto delle potenze; non ci si può concentrare solo sulle relazioni interstatali quando in realtà il disordine colpisce ormai in gran parte e direttamente popoli e società. L’Europa, come luogo di condivisione di sovranità e laboratorio transnazionale, faccia la sua parte.


[1] A. Grande, Fikk overhaling av Obamas stabssjef, in “Dagens Næringsliv”, 14 maggio 2014; ANSA, Nobel a Obama, USA “strigliarono” Oslo, 16 maggio 2014.
[2] M. O’Hanlon, The Obama Defense. What He Gets Right – and Wrong – about Foreign Policy, in “Foreign Affairs”, 28 maggio 2014.
[3] G. J. Ikenberry, Leviatano liberale. Le origini, le crisi e la trasformazione dell’ordine mondiale americano, UTET Università, Torino 2012, p. XV.
[4] R. N. Haass, The Unraveling. How to Respond to a Disordered World, in “Foreign Affairs”, novembre/dicembre 2014.
[5] C. A. Kupchan, No One’s World. The West, the Rising Rest, and the Coming Global Turn, Oxford University Press, Oxford 2013.

La sfida greca


“Elpida erchete”, è tornata la speranza, è lo slogan di Alexis Tsipras. La sua vittoria alle elezioni politiche greche, che lo hanno portato al governo, è una svolta radicale non solo per la politica ellenica, ma per l’intera Unione Europea, o almeno per l’area dell’Euro. Formazioni con un simile programma anti-austerity si vanno consolidando nei Paesi del Mediterraneo, a cominciare da Podemos in Spagna, senza considerare il rafforzamento dell’atteggiamento anti-euro in Italia con il Movimento 5 stelle e la svolta post-secessionista della Lega. La differenza, non da poco, con altre formazioni europee è che nel programma di Syriza non c’è un’avventuristica “uscita dall’Euro”. Nel suo discorso la sera del trionfo, Tsipras ha annunciato che la Grecia metterà fine ad “anni di oppressione” a seguito delle politiche di rigore della Troika economica (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario internazionale). L’imposizione, a partire specialmente dal 2010, di politiche restrittive della spesa pubblica ha approfondito la recessione della Grecia, che nel 2014 ha fatto registrare un tasso di disoccupazione generale del 28%, con punte fino al 60% tra i giovani. Come ha osservato Paul Krugman, le politiche irrealistiche sinora adottate per “salvare” la Grecia hanno affossato il Paese; l’avvento del governo Tsipras può rappresentare l’iniezione di un sano realismo nelle politiche della Troika. Tsipras ha denunciato con forza anche le sperequazioni interne, che paradossalmente, confermando le tesi sulla concentrazione della ricchezza dell’economista Thomas Piketty, si sono acuite durante la crisi e il programma di ristrutturazione economica; l’istituzione di un Ministero per la trasparenza – insieme alla scelta di un team economico competente - è un segnale forte contro l’evasione fiscale e la corruzione. Il nuovo premier greco ha dimostrato anche un pragmatismo perfino spregiudicato siglando un’alleanza indigesta con la formazione populista e xenofoba di Panos Kammenos. Si apre ora una difficile partita nell’Eurozona. E’ prevedibile che i Paesi che invocano un alleggerimento ragionevole delle politiche rigoriste comincino a lavorare in modo più coordinato, in una sorta di coalizione informale pro-crescita. Sarebbe però pericoloso se questo riallineamento portasse ad una polarizzazione su base nazionale all’interno dell’Unione, disgregando non solo l’area dell’Euro, ma lo stesso processo di integrazione. Si avvertono già segnali di divergenza, ad esempio, sull’atteggiamento da assumere nei confronti della Russia; Tsipras si è detto contrario alle sanzioni verso Mosca in relazione alla crisi ucraina, e un’Europa che già si presenta debole potrebbe veder ulteriormente ridotta la sua rilevanza in un contesto strategico. Il caso greco è un’occasione per prendere atto, una volta per tutte, come sostiene Wolfgang Streek, che l’Europa rischia di vedere smantellato il patto sociale che consentiva di coniugare – pur in misura diversa tra Paese e Paese – il capitalismo con la democrazia, il mercato con lo stato. La questione di fondo è che l’integrazione economica non può più reggersi senza un minimo di integrazione politica e di integrazione sociale. Non sembri vuota retorica europeista. Per ridare centralità alla democrazia nell’era dell’economia e della finanza transnazionale non serve (né è più possibile!) tornare allo stato chiuso, bisogna rispondere rendendo transazionale, e cioè veramente europea, anche la politica.

La pace più forte del terrore

L’attentato del 7 gennaio a Parigi segna un punto di svolta nella strategia della radicalizzazione perseguita dai gruppi dell’integralismo para-islamista deviante. L’intenzione è del tutto evidente: portare nel cuore dell’Europa la violenza anomica, diventare gli araldi psicotici di un Islam inautentico, dal volto aggressivo e divisivo; ciò che rimane di una religione, qualunque religione – anche laica o civile – quando essa si è fatta infettare dal germe del totalitarismo e dell’imperialismo, dal desiderio di conquista e di dominio.
Se una fede è esangue, facilmente diventa sanguinaria. Pulsioni mondane, umane-troppo-umane, che nulla hanno a che vedere con il sentimento religioso. L’assassinio si accompagna non alla presenza, ma all’assenza di Dio, anzi alla sua negazione. La strategia di questo terrore omicida e distruttivo è pantoclastica, persegue cioè il fine dello scontro totale, con un cinismo che contempla l’annichilazione reciproca dei contendenti, una sorta di “mutual assured destruction” (distruzione mutua assicurata) ripescata dagli armadi della Guerra fredda.
Se c’è un’agenda politica, essa coincide, in sostanza, con la fine di ogni politica. Dove non c’è possibilità di confronto - anche senza scomodare il dialogo – non c’è la minima possibilità di risolvere questioni, affrontare problematiche complesse, e nemmeno lo spazio per un’autocritica bilanciata. Questi religio-sabotatori globali assomigliano agli alieni di certi film hollywoodiani: niente negoziato, niente coabitazione, solo sterminio per fare spazio ai conquistatori venuti da un altro mondo. In un certo senso, essi sono tecnicamente extra-terresti: sono estranei all’umanità come tale, e pertanto non si preoccupano minimamente della sua – e della loro – distruzione. La fine della politica, per questi adoratori del Terrore, consiste nell’inscenare qui ed ora, nel cuore dell’Europa, un titanico scontro di in-civiltà.
Da una parte, il "cosmo-terrore" ammantato di ideologismi anti-occidentali che rappresentato in realtà l’alibi supremo dei mestatori di morte in cerca di giustificazioni a buon mercato. Sarebbero lo colpe dell’Occidente – che peraltro nessuno nega o nasconde – a provocare una reazione violenta e incontrollabile. Ma il disordine globale andrebbe suddiviso in parti uguali, quanto alla sua origine, tra America, Europa, Russia, Cina, Golfo Persico. Si dovrebbe trattare, quanto meno, di una chiamata di correo. Le enormi ingiustizie globali non sarebbero possibili senza un’alleanza di fatto di oligarchie di ogni colore politico, etnia, religione. Paesi cristiani, Paesi islamici, Paesi buddisti, Paesi agnostici o irreligiosi condividono una responsabilità planetaria che appare semplicistico e mistificante addossare al solo “Occidente”. Potere politico e potere economico, quasi ovunque, Africa compresa, hanno tradito la finalità di servizio all’uomo, di essere strumenti per creare condizioni di “felicità” di persone e comunità. Al contrario, sono divenute spesso strutture oppressive.
Dall’altra parte di questa invisibile, ma reale barricata, questi traditori di ogni vero spirito religioso vorrebbero collocare società europee divenute intolleranti, sempre più contrarie all’immigrazione, alle diversità, spinte sempre più verso posizioni anti-islamiche. La micidiale miscela di crisi economica, con la disoccupazione galoppante, e sentimenti anti-pluralisti e contro-multiculturali prospetta una tempesta perfetta, che gli omicidi al servizio del male assoluto auspicano e che rischia di diventare una esplosiva condizione sociale e politica.
Evitare accuratamente di cadere in questa trappola mortale è, in particolare, la grande sfida dell’Europa. Oggi come non mai se c’è una “missione” europea essa consiste nel dimostrare che la speranza del mondo consiste nell’integrazione, e non nella disgregazione; nella libertà, uguaglianza e fraternità pertutti i popoli e tra tutti i popoli; nel rispetto reciproco tra religioni, culture, civilizzazioni. Evitiamo, soprattutto, di confondere la forza con la reazione violenta, o con lo strumento militare; da sempre, gli uomini liberi e forti sono anzitutto uomini di pace. Ma la pace, come ricordava già negli anni ’30 del secolo scorso Emmanuel Mounier, non è affatto uno stato debole; esso richiede il massimo di impegno, di determinazione, di perseveranza, di rischio. Una pace che non è certo appeasement, acquietamento; al contrario, la pace è iniziativa, rilancio, invenzione del nuovo. Questa idea di pace è infinitamente più forte di ogni terrore.