All’inizio del mandato di Obama, la politica estera del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti fu caricata di eccezionali aspettative, in parte giustificate dal carattere multilaterale e dal realismo etico che la Casa Bianca avrebbe voluto imprimerle. Obama si è trovato però non solo a dover raccogliere la difficile eredità dei due conflitti iniziati dal suo predecessore – e delle ripercussioni che essi hanno avuto sul teatro mediorientale e sui rapporti con il mondo arabo-islamico –, ma a dover agire proprio nel momento di ridefinizione della mappa del potere mondiale. Il presidente americano, in sostanza, è stato costretto dalle circostanze a ripensare il ruolo degli USA in un mondo in cui l’egemonia occidentale incontra crescenti resistenze.
Morten Wetland, ambasciatore della Norvegia alle Nazioni Unite dal 2008 al 2012, ha recentemente affermato di aver vissuto il suo momento più imbarazzante al Palazzo di vetro in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace per il 2009 a Barack Obama, da poco eletto 44° presidente degli Stati Uniti.1 Secondo il racconto di Wetland, il suo collega a Washington, Wegger Strømmen, lo avrebbe chiamato per informarlo di aver ricevuto una reprimenda dal Chief of Staff della Casa Bianca (all’epoca Rahm Emanuel), poiché il premio, contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, avrebbe messo Obama in una difficile posizione. Pare che Emanuel abbia affermato, in tale circostanza, che il Nobel per la pace avrebbe finito per restringere la libertà del presidente di stabilire in piena autonomia la propria agenda in campo internazionale. L’episodio è, in qualche modo, emblematico dell’operato di Obama in politica estera. Da una parte, la volontà di stabilire una netta discontinuità rispetto al recente passato; dall’altra, la necessità di tener conto di una realtà internazionale in una fase di radicale ristrutturazione di equilibri, di alleanze, di rapporti di forza.
La motivazione del Nobel, in verità, conteneva i due elementi su cui Obama aveva annunciato di voler riformulare la politica estera americana: il multilateralismo e il dialogo come “regola d’ingaggio”. Più in generale, l’articolazione del ruolo americano nel mondo appariva ispirarsi, nella visione di Obama, a un sano realismo etico dopo gli eccessi ideologici e persino messianici dei neoconservatori durante gli otto anni di presidenza di George W. Bush. Non v’è dubbio che all’inizio del suo first term (2009-12) Obama puntò a cambiare anzitutto il clima dei rapporti internazionali. Basti ricordare i messaggi al mondo islamico (e in particolare il discorso del Cairo del 4 giugno 2009) e l’iniziativa a favore del disarmo nucleare lanciata sulla piazza di Praga il 5 aprile 2009 (“l’opzione zero”), senza trascurare il recente annuncio di una nuova fase nelle relazioni con Cuba dopo decenni di embargo e politica di isolamento nei confronti di L’Avana. Oggi bisogna riconoscere che di realismo ce n’è stato tanto (l’uccisione di Osama bin Laden con una riuscita incursione militare in pieno territorio pachistano; l’uso di droni in funzione antiterrorismo ma non privi di “effetti collaterali” – letali – sui civili; la mancata chiusura del centro extraterritoriale di detenzione straordinaria di Guantánamo; la questione dello spionaggio politico su vasta scala attraverso i programmi della National Security Agency), mentre l’etica ha fatto molta più fatica a farsi strada nelle complicazioni crescenti della politica mondiale. Occorre però, anzitutto, ricordarsi del punto di partenza. Obama raccolse la complessa eredità di due conflitti (Afghanistan e Iraq), di un profondo risentimento nel mondo arabo-islamico per una “guerra al terrorismo” le cui modalità, secondo alcuni analisti, alimentarono ulteriormente i suoi focolai e i suoi centri di incubazione, di una reazione di autodifesa dinanzi alla teoria del contagio (la diffusione ineluttabile della democrazia liberaldemocratica di stampo occidentale e di un modello economico globalizzante di tipo liberista), di uno scontro di civiltà divenuto una profezia che si autoavvera.
Obama ha mantenuto la promessa di mettere fine all’intervento militare in Iraq, mentre è in piena attuazione il programma di disimpegno dall’Afghanistan. Nel frattempo, però, altri fronti si sono aperti, persino più impervi e intrattabili. La questione libica, lasciata sostanzialmente nelle mani degli europei, ha ancora oggi – per dire il meno – le fattezze di una missione largamente incompiuta. Il dilemma siriano, con Assad ormai internazionalmente screditato, da un lato, e la minaccia dello Stato Islamico, dall’altro, costituisce un irrisolto fattore di instabilità strutturale e persino esistenziale rispetto alle entità statali dell’intera regione. Ciò che sembra accomunare queste situazioni, pur oggettivamente molto diverse, è la questione della sostenibilità (dubbia o assente) del quadro istituzionale, politico, sociale ed economico, che emerge in tutta la sua fragilità dopo gli interventi internazionali. È mancata la gestione della ricostruzione politica e istituzionale, nonostante la retorica dell’institution building. Il nocciolo della questione riguarda la volontà e la possibilità non solo degli Stati Uniti, ma anche degli altri principali attori della politica mondiale, di assumersi l’onere – peraltro in base a criteri non certamente coerenti e con metodi non necessariamente in linea con la legalità internazionale – non solo dell’occasionale abbattimento dei regimi illiberali e autoritari, ma anche e soprattutto della ricostituzione del patto nazionale, di un progetto politico minimamente condiviso in società e paesi profondamente lacerati. Ciò richiede intenzionalità politica, ma anche risorse umane e finanziarie, sempre più difficili da mobilitare in un contesto di generale “sglobalizzazione” e di ripiegamento sull’orizzonte delle necessità nazionali.
A tratti Obama è stato considerato esitante (è stato definito, ad esempio, il “presidente Amleto” o il “procrastinatore”). Tuttavia, c’è da chiedersi se in certe circostanze difficili da decifrare (si pensi all’ipotesi, poi rientrata anche per l’opposizione russa, di un “attacco punitivo” ad Assad per l’uso di armi chimiche nella guerra civile siriana) non sia meglio soppesare tutti i fattori in gioco piuttosto che precipitarsi a compiere scelte improvvisate e improvvide, che potrebbero in seguito rivelarsi irreversibili. La verità, come sempre, sta nel mezzo; eppure non sarei del tutto sicuro, come ha scritto Michael O’Hanlon, che, non essendoci certamente alcun bisogno che Obama diventasse un altro George W. Bush, forse talvolta avrebbe potuto essere un po’ più Ronald Reagan.2 La rappresentazione di un mondo “binario”, basata sulla narrazione della lotta del bene contro il male, se non è mai stata convincente, nell’intricato panorama internazionale contemporaneo costituisce un rischioso azzardo.
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è quella che più ha messo alla prova le prospettive ricostruttive di Obama. Nel giro di pochi anni un vecchio ordine autoritario è crollato in molti paesi (Tunisia, Libia, Egitto), tanto da far prefigurare una fioritura democratica (questa volta “endogena”) nell’intera area. Oggi paradossalmente, dopo l’appoggio che l’Amministrazione americana aveva coraggiosamente dato alle primavere arabe, il punto di ancoraggio della politica mediorientale di Washington (oltre a Israele) è nuovamente l’Egitto, tornato sotto il controllo di classi dirigenti forti e tradizionali, mentre persino l’Iran (con un certo allarme da parte delle monarchie del Golfo) appare, oggettivamente, come un potenziale alleato strategico regionale contro un irredentismo sunnita violento e aggressivo.
Il conflitto israelo-palestinese è quello su cui si registra un preoccupante stallo, se non una regressione. Il riconoscimento della statualità alla Palestina (come Stato osservatore non membro) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 2012 (con i susseguenti riconoscimenti bilaterali, come avvenuto, di recente, da parte della Svezia) non si è tradotto né in progressi politici né in svolte negoziali, al contrario. Il tentato braccio di ferro con il primo ministro Netanyahu sugli insediamenti illegali si è risolto in un sostanziale nulla di fatto. La determinazione a imprimere un nuovo impeto alla diplomazia sotto la spinta degli Stati Uniti si è scontrata con le crescenti esigenze securitarie di Israele e con le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza (Pillar of Defense nel 2012 e Protective Edge nel 2014). Non v’è dubbio che proprio il conflitto israelo-palestinese rappresenti (almeno finora) un vulnus nel quadro della politica estera dell’Amministrazione Obama.
All’inizio del mandato di Obama non erano mancate le preoccupazioni degli europei per l’accento posto sulla dimensione “transpacifica” oltre che “transatlantica” della proiezione internazionale degli Stati Uniti, a riprova della traslazione di potere in corso su scala globale. Questo orientamento è stato precisato nel 2012 nel documento strategico Pivot to East Asia, in cui si delinea un approccio ambizioso alla regione, basato sul rafforzamento delle alleanze bilaterali di sicurezza, sull’approfondimento delle relazioni “operative” con i paesi emergenti dell’area (inclusa la Cina), sul rilancio della cooperazione con le istituzioni multilaterali regionali (in particolare l’ASEAN), sull’espansione dei rapporti com merciali e sugli investimenti, su una presenza militare a largo raggio e sui progressi nell’ambito della democrazia e dei diritti umani. Tuttavia, la storia non ne vuole sapere di strategie scritte a tavolino e Obama è stato costretto dalle circostanze (che portano il nome di Putin), oltre ad accantonare l’idea di una ripartenza nei rapporti con Mosca, a rifocalizzarsi, se non sull’Europa in quanto tale, almeno sull’area eurasiatica. La crisi ucraina (largamente sottovalutata ai suoi esordi) e l’annessione della Crimea (invece largamente prevedibile) hanno riproposto con forza il problema della sicurezza europea, che paradossalmente proprio il troppo rapido e poco meditato allargamento a est dell’alleanza di sicurezza euroatlantica (la NATO) aveva indebolito, anziché rafforzare. Obama si è trovato a gestire il ripensamento del ruolo degli Stati Uniti proprio nel momento più critico del ridisegno della mappa del potere mondiale. Si tratta, in definitiva, della fine dell’ordine egemonico liberale messo in piedi dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti, a mo’ di un “Leviatano liberale”, secondo la plastica definizione di John Ikenberry, «assunsero il compito di realizzare e dirigere un ordine internazionale organizzandolo intorno a istituzioni multilaterali, alleanze, relazioni speciali e rapporti con Stati-clienti. Si trattava di un ordine politico gerarchico dotato di caratteristiche liberali. Definito in termini di erogazione di sicurezza, di creazione di ricchezza e di avanzamento sociale, quest’ordine egemonico liberale è stato, con tutta probabilità, l’ordine di maggior successo della storia mondiale».3 Quest’ordine liberale, se non proprio finito, è quanto meno sottoposto a forti tensioni e soprattutto viene contestato in molte aree del mondo, mostrando segni di progressivo disfacimento, come ha denunciato Richard Haass.4 Tuttavia, non è ancora chiaro quale possa essere il quadro politico adatto a regolare le nuove relazioni internazionali. Charles Kupchan ha parlato dell’avvento del “mondo di nessuno”, vale a dire un sistema internazionale privo dell’impronta di un egemone chiaramente identificabile.5 Per Kupchan, se gli ultimi due secoli hanno visto l’egemonia materiale e ideologica dell’Occidente nella politica internazionale, il mondo del futuro prossimo non sarà dominato da un singolo paese, da una particolare area regionale o da un solo modello politico. Stati Uniti e Unione europea si ritroveranno ben presto in un mondo di profondi cambiamenti, in cui nessuna delle potenze emergenti avrà la forza necessaria per esercitare un’egemonia globale. Una cosa è coordinare le iniziative politiche, come avviene ad esempio per i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), altra cosa è condividere una visione coerente del nuovo ordine internazionale. Questi paesi sanno quello che non vogliono più, cioè un mondo ancora dominato dall’Occidente, ma sarà più difficile che possano immaginare e realizzare un’alternativa politicamente praticabile nel breve periodo.
Obama ha condotto la barca (o il transatlantico) della politica estera americana in queste acque agitate. Sarebbe gratuito definirlo il primo presidente dell’era post americana, perché gli Stati Uniti sono ancora un punto di riferimento, e non solo per l’Occidente, in molti campi e hanno dimostrato una resilienza che la ripresa economica americana non fa che confermare. La complessità mondiale insegna che ormai non può essere né un solo presidente – per quanto carismatico, illuminato e determinato – né un solo paese – per quanto economicamente o militarmente potente – a fare la differenza e che la via d’uscita dal disordine mondiale non consiste nell’affannosa ricerca di un nuovo egemone o di un nuovo concerto delle potenze, quanto nell’immaginare e costruire un ordine condiviso e pluralista, per sfuggire dal ciclo dell’egemonia delle iperpotenze ed entrare in quello della democrazia internazionale. Ugualmente datata è la visione di un “ordine mondiale”, recentemente riproposta da Henry Kissinger,6 basata ancora sugli assunti vestfaliani della sovranità assoluta degli Stati. Come ha scritto Anne-Marie Slaughter7 oggi la questione di fondo della politica internazionale non è l’equilibrio di potere, o una qualche riedizione su vasta scala del concerto delle potenze; non ci si può concentrare solo sulle relazioni interstatali quando in realtà il disordine colpisce ormai in gran parte e direttamente popoli e società. L’Europa, come luogo di condivisione di sovranità e laboratorio transnazionale, faccia la sua parte.
[1] A. Grande, Fikk overhaling av Obamas stabssjef, in “Dagens Næringsliv”, 14 maggio 2014; ANSA, Nobel a Obama, USA “strigliarono” Oslo, 16 maggio 2014.
[2] M. O’Hanlon, The Obama Defense. What He Gets Right – and Wrong – about Foreign Policy, in “Foreign Affairs”, 28 maggio 2014.
[3] G. J. Ikenberry, Leviatano liberale. Le origini, le crisi e la trasformazione dell’ordine mondiale americano, UTET Università, Torino 2012, p. XV.
[4] R. N. Haass, The Unraveling. How to Respond to a Disordered World, in “Foreign Affairs”, novembre/dicembre 2014.
[5] C. A. Kupchan, No One’s World. The West, the Rising Rest, and the Coming Global Turn, Oxford University Press, Oxford 2013.