Dal beat al Gospel


L’uscita di alcuni film di successo, di genere in senso lato “musical” e a soggetto evangelico, ha risvegliato da alcuni decenni anche in Italia l’interesse per brani a soggetto religioso.  Godspell è un film del 1973, e fu tratto da un musical di John M. Tetelax del 1971; si potrebbe definire nei termini dell’applicazione della cultura musicale hippie, dei “figli dei fiori”, al messaggio evangelico di una vita pacifica, semplice e serena, anche grazie al sostegno di una comunità. Il famosissimo Jesus Christ Superstar è del 1973, e rappresentò – tra mille polemiche - l’espressione del “pop” applicato al Vangelo.
Ma è con altri due film di stampo religioso e musicale che si afferma, anche in Europa, l’irresistibile fascino del canto Gospel. Mi riferisco, in primo luogo, al celeberrimo Sister Act del 1992 (seguito da Sister Act II del 1993), in cui il coro Gospel è lo strumento che consente di risvegliare il senso della comunità e di attrarre i giovani in un contesto degradato. Nel 1996 uscirà The Preacher’s wife  (“Uno sguardo dal Cielo” è l’improbabile traduzione italiana), con l’indimenticabile Whitney Houston e il Georgia Mass Choir. Sarebbe eccessivo sostenere che la nascita di numerosi cori Gospel anche da noi in Italia sia dovuta a tali successi di botteghino; tuttavia è innegabile che le emozioni e le situazioni evocate dalla filmografia che ho brevemente ricordato abbiano fatto da catalizzatore di un desiderio di esprimere con nuovi (per noi) registri canori i valori universali del Vangelo, soprattutto quelli legati alla fraternità universale e all’unità del genere umano al di là delle differenze e delle specificità di ogni popolo. Si sentiva forse l’esigenza di esplorare nuove dimensioni musicali della fede dopo gli esperimenti della cosiddetta “Messa beat” della metà degli anni ’60 e dell’inizio degli anni ’70. Si trattò, allora, di un’esperienza di “Gospel” all’italiana (come nel caso del…Western all’italiana), specie nel caso del maestro Marcello Giombini, che scrisse nel 1966 la "La Messa dei Giovani", per voci, chitarre, basso, tastiere e percussioni. La prima esecuzione avvenne presso l'Aula Borrominiana dell'Oratorio di San Filippo Neri alla Vallicella il 27 aprile del 1966, davanti ad un folto pubblico ed ebbe un’ampia risonanza sui mass media, che collegarono (un po’ arbitrariamente) il nuovo stile musicale al rinnovamento della Chiesa innescato dal Concilio Vaticano II.
Ha un senso lo stile Gospel alle nostre latitudini? Direi senz’altro di sì. Si tratta di un canto che pur avendo le sue radici profonde negli spirituals del periodo precedente l’emacipazione degli afro-americani dalla schiavitù, e quindi fondato su indicibili sofferenze, è coinvolgente, eleva l’anima,  dà un senso di gioia e di libertà.  L’obiezione che spesso viene posta è che il Gospel suona come un canto “estraneo”, e pertanto non sarebbe adatto alla nostra cultura. Bene: quanti di voi, oggi, si sentono a proprio agio con il gregoriano (tra parentesi, un’espressione artistica eccelsa e di grande intensità spirituale)? Nel caso del Gospel, non è il colore della pelle o il Paese di origine che conta, ma la capacità di saper esprimere con la stessa intensità quel senso del divino e del rapporto con Dio contenuto nei canti Gospel. Eseguire un gospel non è mai un’esibizione o una dimostrazione di bravura tecnica. Di più: un gospel non si esegue, si vive. Se è vero Gospel, è sempre una profonda esperienza spirituale, un incontro con Dio che si fa insieme agli altri coristi.
Per questo occorre preparare bene i canti Gospel: è necessario, anzitutto, che se ne comprenda il vero senso (e non solo il significato delle parole), se ne conosca la genesi e il contesto in cui nasce. Non bisogna mai dimenticare che, in tutte le sue espressioni, il canto spirituale è, da un lato, un vero e proprio ministero liturgico (un «compito ministeriale nel servizio divino» secondo il Concilio Vaticano II), dall’altro un servizio alla comunità attraverso un’espressione artistica significativa e profonda, e non semplicemente o solo ricreativa. E il canto Gospel non fa eccezione. 

The Westphalian roots of Rawls's "principles of justice"


Rawls outlines his idea of "community" as an idea of society as a fair system of cooperation. He characterizes that "system of cooperation" as a relation-based structure that shows three main elements: cooperation as distinct from "merely socially coordinated activity"; fair terms of cooperation specifying an idea of reciprocity; an idea of "good" as "each participant's rational advantage". This structure of cooperation may have something in common with the most sophisticated conceptualizations of the "market". The main problematic difference here is the fact that "reciprocity" cannot be considered as a political equivalent to the exchange of values that happens in the market. Reciprocity, in Rawls' s own words, "lies between the idea of impartiality, which is altruistic (being moved by the general good), and the idea of mutual advantage understood as everyone's being advantaged with respect to each person's present or expected future situation as things are" (Political Liberalism, p. 16-17). In line with this fundamental distinction, Rawls states clearly that a well-ordered democratic society is neither a community nor an association. It is not an association for two reasons: first, you may choose to be member of an association, whereas you are member of a well-ordered democratic society by birth (and the exit from it is only by death); second, a well-ordered democratic society has no final ends and aims in the way that persons and associations do (Political Liberalism, p. 40-41). Moreover, a well-ordered society is not a community "if we mean by a community a society governed by a shared comprehensive religious, philosophical, or moral doctrine" (Political Liberalism, p. 42). Rawls adds that "to think of a democracy as a community (so defined) overlooks the limited scope of its public  reason founded on a political conception of justice" (Political Liberalism, p. 42). 
However, the biggest problem with the attempts to "generalize" Rawls has to do  both with the separate conceptual framework used in The Law of Peoples and with the limitations (actually, boundaries) that Rawls establishes in discussing the conditions of inclusiveness of his theory. The Rawlsian "well-ordered society" is closed (entry by birth, exit by death). Rawls leaves deliberately aside "relations with other societies"; he treats that problem in The Law of Peoples, but excluding the possibility to apply his principles of justice beyond the national borders. The attempts to "stretch" Rawls in a "transnational" way are not convincing. Rawls is the last great "westphalian" thinker. From this point of view, he seems closer to Bodin than to Kant. 

Gaza e l’illusione della “pace separata”


Per quanti lo avessero dimenticato – ma non se ne facciano una colpa! -  la questione israelo-palestinese è inquadrata ancora ufficialmente in un cosiddetto “processo di pace”, benché si  tratti ormai, purtroppo, di una formula del tutto svuotata di contenuti e persino tristemente ironica mentre cadono bombe (su Gaza) e missili (da Gaza). Si potrebbe sostenere, a voler essere davvero naïf, che il processo di pace sarebbe ancora in piedi tra Israele e la Cisgiordania, mentre sarebbe ormai in stato comatoso (e non da oggi) nei riguardi di Gaza. Questo è stato l’errore fondamentale degli ultimi anni, almeno dalle elezioni palestinesi del 2006, e cioè pensare di poter raggiungere, in questa turbolenta regione del mondo, una “pace separata”. La verità è che la ricerca di una pace separata ci ha sinora, nei fatti, separato dalla pace.  
In Occidente ci facciamo facilmente distrarre da questioni che – comprensibilmente – coinvolgono lo stato di salute delle nostre economie e dei nostri sistemi politici. Ecco perché ci hanno colto di sorpresa gli eventi bellici a Gaza. La realtà è che da molti mesi nella regione si confrontano due opinioni pubbliche esasperate, anche se per ragioni e in misura molto diversa. Da una parte la popolazione di Gaza, “intrappolata” nella Striscia, in condizioni economiche e sociali spaventose; dall’altra, la popolazionisraeliana, sempre più impaurita e scossa dai lanci di missili da Gaza. E’ difficile parlare il linguaggio della politica e della diplomazia dinanzi all’esasperazione; eppure, questo dovrebbe essere il compito di leader di Paesi che vogliano davvero svolgere un ruolo nella regione e non limitarsi semplicemente a gestire l’esistente, con l’obiettivo minimalista di limitare i danni. Questo è sembrato l’atteggiamento della comunità internazionale – in particolare degli Stati Uniti, impegnati in una difficile campagna presidenziale e dell’Unione Europea, attanagliata dalla crisi del debito e dai rischi di disintegrazione interna.
Il punto è che la situazione, oggi più che mai, può sfuggire di mano. I contenuti del “diritto all’autodifesa” di Israele si presentano con varianti notevolmente diverse. Dal punto di vista strategico, Israele ha dinanzi a sé tre possibili alternative. La prima consiste nel proseguire le operazioni di “contenimento” diHamas con iniziative tuttavia più “robuste” sotto il profilo militare. La seconda è una versione rafforzata della cosiddetta “Operazione Piombo Fuso” messa in pratica tra il 2008 ed il 2009, consistente nel colpire le installazioni “ufficiali” e le infrastrutture controllate da Hamas, con la possibilità di una limitata operazione terrestre, rischiosissima anche nel caso in cui fosse concepita solo in termini provvisori. La terza consisterebbe in un’offensiva su larga scala mirante alla pura e semplice eliminazione di Hamascome forza di governo a Gaza, e ciò richiederebbe l’uso combinato di diversi strumenti di intervento, compresa una occupazione più o meno prolungata della Striscia.  
Tuttavia, rispetto al 2008-2009, la situazione nella regione è strutturalmente cambiata. Molti si sono illusi di poter metter nel congelatore il conflitto israelo-palestinese mentre tutto intorno mutava ad una velocità imprevista ed incontrollabile. A questo proposito, taluni analisti menzionano il ruolo destabilizzante chepotrebbero avere i Fratelli Musulmani in relazione a Gaza. Non è detto; potrebbe essere una conclusione affrettata, poiché la stabilità a Gaza è per l’Egitto anzitutto un problema di sicurezza nazionale, vista la contiguità territoriale, e solo in seconda battuta diviene una questione di affinità ideologica o religiosa. L’iniziativa militare di Israele costringe, in qualche modo, l’Egitto a riapparire sulla scena medio-orientale dopo le convulsioni interne, ma in un contesto in cui potrebbero essere riformulati (ma non certo demoliti) i due pilastri della politica estera egiziana, vale a dire il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti e il Trattato di pace con Israele.
Più in generale, quasi tutti i Paesi della regione hanno a che fare, ora, con opinioni pubbliche radicalizzate.  Inoltre, sono saltati alcuni equilibri fondamentali, come l’alleanza tra Turchia edIsraele (molto “raffreddata” dopo l’incidente della “FreedomFlotilla” nel 2010), e l’oggettiva diffidenza del governoNetanyahu nei riguardi del ri-eletto Presidente Obama. Non siamo tornati ad una situazione regionale pre-1967, ma le somiglianze sono comunque preoccupanti.
In questo scenario, ci sarebbero davvero le condizioni per una forte iniziativa europea –o meglio, dei suoi 27 governi… - per impedire una nuova deriva bellicista che sarebbe difficilmente controllabile. 

Turkey “à la carte”?


The motivation for the award of the Nobel Prize Peace 2012 to the European Union refers to  "the possibility of EU membership for Turkey" as a factor that "advanced democracy and human rights in that country". No mention is made to Turkey foreign and security policy. To be sure, Turkey has strong ties with the Euro-Atlantic security framework, and that strategic choice is not meant to change in the near future. However, Turkey has its own national and regional interests to promote and defend. The recent worsening of the relations of Turkey with Israel and Syria could trigger or accelerate a process on "inter-independence" between Ankara and the Euro-Atlantic world, leading to a restructuring of the regional security balance.
This would not mean, however, that Turkey will turn its back on the West. The multidimensional "strategic depth" of Turkey interests an priorities, however, has already generated a wider and more problematic spectre or interaction, the Lybian case being a first evidence of that. Turkey advocated for non-intervention in military terms without necessarily opposing effective actions against Gheddafi's regime. It will be fair to say that Turkey is now widening the scope of its initiatives in the Mediterranean and Middle East, especially after the "Arab Spring" emerged as a game changer in the area. However, the illusion of maintaining a "zero problems" policy with its neighbours had to face the harsh reality of a region in turmoil and structural transformation. According to the Turkish analyst Sinan Ulgen, the new drivers in the areas were to create new objectives for Turkish foreign-policy strategists. Unfortunately, the growing tension in the Middle East did not confirme the prediction that Turkey’s leaders would have been “downgrading the importance of hard power security issues in favor of enhancing the country’s soft power while also grasping economic opportunities.” (Sinan Ulgen) By the same token, it is not necessarily true that the Turkish foreign policy is going through an “ontological” transformation in the direction of a “de-securitization”, which would imply – as a secondary consequences - an alteration of the balance of power between the country’s military and civilian establishments (this process is driven, in fact, by internal political factors).
At any rate, the present situation of Turkey is not necessarily ambigous. It is rather the result of a difficult balance of national, regional, transnational and international factors. According to some analysts, the new Turkish-Western relationship should probably be “à la carte”, driven by convergent national interests rather than “amorphous notions of geopolitics and identity” (Ian Lesser).
Those challenges notwithstanding, can we still consider Ankara as embedded in the Euro Atlantic framework? Or course we can. We just need to adjust the framework of our relationship. One could claim that Turkey finds NATO working on its top “hard security” priorities whereas the EU appears to benefit from a more comprehensive agenda focused on “soft security.”Turkey continues to share most of the goals of the Euro-Atlantic “security community”, such as no nuclear weapons proliferation in the region, a peaceful and just solution to the Israeli Palestinian and to other Middle East conflicts; the fight against transnational terrorism.  We should nevertheless be ready to accept that Turkey might have a different attitude towards certain “hot” topics (the Middle East Peace Process, Iran, Syria) and might be willing to pursue them with its own tactics and methodology.  More crucially, in dealing with Turkey, we should take into account that the country is now willing to play a role as responsible stakeholder in the regional and global arena. Especially as far as the Middle East is concerned, we should not take Turkey’s support for granted but treat it as an equal partner while devising policies, establishing new mechanisms for regular dialogue and better coordination. We should recognise Turkish pivotal role in the region and consider such an ambition more as an asset than a liability, as the special relationship of Turkey with some key-countries (Iran, Iraq, Syria before the current crisis) and some relevant non state actors (Hamas, Hezbollah) in the area gives us a unique chance to reinforce our dialogue capacities in the region. What is needed, in addition to the existing for a of cooperation, it is new framework for the partnership between Turkey and the West that should primarily aim at creating a “special relationship” with Turkey in the area of security, giving Ankara a prominent role in the Mediterranean and Middle East area.  A closer co-operation should therefore be first sought in the areas where interests converge. Other “missions” might be managing the game in Afghanistan and Iraq, promoting stability in the Black Sea and in the Balkans.  Turkey has participated in several military and civilian missions  in the context of the European Security and Defence Policy, including Concordia and Proxima (Macedonia), and EUFOR the Democratic Republic of Congo, Althea (Bosnia), EUPM (Bosnia), and EUPOL Kinshasa. As such, it is one of the most active participant in such missions in comparison to other  “third countries” and makes better that many EU member states as well. Turkey also takes regular commitments to the EU’s headline goals and is a quite important contributor to the EU battlegroups.
What is missing in this apparently rosy scenario?
So far, the security aspects of the Mediterranean area has been so far dealt with in different security fora.
For instance,  the “5+5” is a loose format for political dialogue which brings together ten countries bordering the Western Mediterranean Basin: five countries of the Arab Maghreb Union  - Algeria, Libya, Morocco, Mauritania and Tunisia - and five countries of the European Union - Spain, France, Italy, Malta and Portugal.
Unfortunately, the project of the Union for the Mediterranean is not going anywhere for the time being. The Union for the Mediterranean was proposed by President Nicolas Sarkozy, who wanted to strengthen relations between the EU’s southern member-states - such as France, Italy and Spain - and their North African and Arab neighbours across the sea.  It was not a bad idea in principle.  The Union for the Mediterranean was launched at a glittering ceremony in Paris in July 2008, it began life with no fewer than 43 members - the EU 27, plus 16 others ranging from Albania and Algeria to Israel and the Palestinian Authority. The Union for the Mediterranean had barely got off the ground before it ran into trouble in the shape of the Gaza conflict between Israel and Hamas at the beginning of 2009; consequently, high-level Union for the Mediterranean meetings were suspended.  Like the Barcelona process, the Union for the Mediterranean turned out to be hostage to decades-old political tensions in the Middle East.  On the other hand, the Union for the Mediterranean is supposed to steer clear of politics and concentrate on uncontroversial projects such as solar energy, cleaning up pollution in the Mediterranean Sea and encouraging small and medium-sized enterprises in the region. In principle, there is no explicit and comprehensive security dimension.  After the incident occurred in may 2012, when Israel halted with a military blitz a flotilla of ships trying to break the blockade of the Gaza strip, it became difficult to be optimistic on the next development. Apart from the impact on Arab-Israeli relations, the incident damaged relationship between Israel and Turkey. Though one of the Mediterranean region’s most influential states, Turkey has never thought very highly of the Union for the Mediterranean, in the fear that that solution was offered merely as a surrogate of the full membership of the European Union. So, we need to think in a more creative way, taking into account also more informal channels.  
To deal with the security aspects of the cooperation in the Mediterranean, the North Atlantic Council initiated in 1994 a NATO’s Mediterranean Dialogue, that involves seven non-NATO countries of the Mediterranean region (Algeria, Egypt, Israel, Jordan, Mauritania, Morocco and Tunisia). Its main mission, according to the original project, the Dialogue “reflects the Alliance’s view that security in Europe is closely linked to security and stability in the Mediterranean. It is an integral part of NATO's adaptation to the post-Cold War security environment, as well as an important component of the Alliance’s policy of outreach and cooperation.”. The Dialogue pursue three specific goals: “contribute to regional security and stability;  achieve better mutual understanding dispel any misconceptions about NATO among Dialogue countries.”
Moreover, NATO launched, in June 2004, the  “Istanbul Cooperation Initiative”, with the goal to contribute to long-term global and regional security by offering countries of the broader Middle East region practical bilateral security cooperation with NATO. Based on the principle of inclusiveness, the Initiative is, however, open to all interested countries of the broader Middle East region who subscribe to its aims and content, including the fight against terrorism and the proliferation of weapons of mass destruction. Six countries of the Gulf Cooperation Council were initially invited to participate. To date, four of these -- Bahrain, Qatar, Kuwait and the United Arab Emirates -- have joined. Saudia Arabia and Oman have also shown an interest in the Initiative.
So, we have in place a rather baroque structure that is only partially functional.
It appears though necessary to identify more comprehensive instruments to promote a holistic approach to the security of the region, taking into account all its possible aspects, including soft security. Unlike previous examples, such an instrument ought to be larger in terms of both the countries and the nature of the participants involve.
An option could be the establishment of an annual Mediterranean Conference, modelled after the Munich Conference on Security Policy, which would deal with security in the region, with the participation of Ministers (Foreign Affairs and Defence), Members of Parliaments, high representatives of the armed forces, academics, journalists and business people from the countries of the region and from other actors concerned.  The agenda of the Conference could focus on several dimensions of soft security, such as fight against terrorism and nuclear proliferation, human trafficking and illegal migration, energy and environmental security, catastrophe prevention, maritime security. The Forum could be organised jointly, for instance,  by Italy and Turkey, in the light of the close co-operation between the two countries, and take place alternatively in the two countries. By means of such an informal instrument, Ankara would no longer provide just a logistic support to security in the area, but would instead become a “hub” for identification of policies in the area.
In a changing security environment, it is not safe continuing thinking in terms of formal “alliances” and organizational structures. On the contrary, the capacity to adapt to the new challenges cannot be mummified in forma format of cooperation, although it is not suggested here to get ride of treaties and legally binding agreements.  As in the climate change narrative, countries like Turkey have to learn how to cope in practical terms with growing complexity and intractability, switching fast between the two polarities of adaptation and mitigation.  Adaptation requires a mentality of flexible arrangements, whereas mitigation implies responsive capabilities in the medium and long term. Our difficulty in framing in a new way the security concerns of Turkey is due to the adoption of old categories, based on military commitments, hard security and strong legal and political engagements.





Realismo etico: un programma per il Presidente

C'è un inconveniente, difficilmente eliminabile, nelle nostre analisi riguardanti le elezioni presidenziali americane. Si tratta principalmente di questo: tutte le elezioni, benché importanti, sono contingenti, rispondono cioè ad una logica temporale di breve o - se va bene - di medio periodo. I processi di cambiamento sul piano sociale, economico e scientifico-tecnologico si proiettano invece, solitamente, sul lungo termine. Anche i critici della "velocitá eccessiva" della globalizzazione devono comunque porsi dal punto di vista di diversi decenni, e tale prospettiva non è compatibile con un mandato elettorale. Mentre nel mondo avvengono mutamenti demografici, culturali, identitari ed economici destinati a ridisegnare la mappa del pianeta, ci ritroviamo puntualmente a disquisire se questo o quello dei candidati favorirá o meno il rapporto con l'Europa, come si porrà nei confronti della Cina, quale atteggiamento assumerà nei confronti del mondo arabo-islamico. Intendiamoci: non c'è dubbio che lo "stile" di una Presidenza rispetto a un'altra possa fare la differenza, come abbiamo tutti potuto costatare nel passaggio da George W.Bush a Obama (basti confrontare la pericolosa dottrina della "esportazione della democrazia" con il discorso di Obama al Cairo nel 2009). Ed è anche provato che un gesto di rottura di un Presidente possa imprimere un'accelerazione a processi in corso, come avvenne in occasione della spettacolare visita di Nixon in Cina nel 1972 o, in un altro quadrante, con l'inatteso viaggio di Sadat a Gerusalemme nel 1977. 
Tuttavia, lo scenario più ampio in cui la prossima Presidenza americana dovrà collocarsi è in buona parte giá predisposto e difficilmente modificabile. Si può "disinventare" la globalizzazione, si possono ignorare le forti interrelazioni economiche e commerciali che avvolgono l'intero globo? Si può prescindere, nel prossimo futuro, dalla dipendenza energetica e delle materie prime? Si possono accantonare le istituzioni multilaterali, che conferiscono un minimo di legittimità alle relazioni internazionali? Si possono bloccare, con un atto d'imperio, le correnti migratorie planetarie? Si può far fronte da soli, quale che sia il potere relativo di cui si dispone, alle nuove minacce transnazionali che incombono sull'umanità, come il terrorismo, il cambiamento climatico, il rischio di proliferazione nucleare, il depauperamento delle risorse alimentari, l'insufficienza dell'approvvigionamento idrico? Si possono risolvere con il solo strumento militare inestricabili crisi regionali?
Se la riposta è no, allora dobbiamo convenire che le vecchie categorie utilizzate per l'analisi della politica americana, pur tenendo conto del forte ruolo dei Capi dell'esecutivo in un sistema presidenziale, non sono più adatte a farci comprendere le nuove regole del gioco. Il prossimo Presidente degli Stati Uniti non avrà, infatti, dinanzi a sé la classica scelta tra "isolazionismo" o " interventismo", per la semplice ragione che non c'è più un mondo esterno da una parte e il contesto nazionale dall'altro. Tutto è interrelato, interconnesso, intrecciato. Un esempio? Il salvataggio della Chrysler di Detroit è avvenuto grazie ad un’iniziativa bi-nazionale (un prestito statunitense e canadese di 7,6 miliardi di dollari), ma con il concorso decisivo di un’azienda di un Paese terzo (la Fiat) che a sua volta è ora in qualche modo  "salvata" dal surplus della consociata americana; il modello è quello del "costruttore globale" di auto. Le ricadute, localissime, si misurano in posti di lavoro preservati in Michigan e in Ontario (ma ciò sembra applicarsi meno, purtroppo, agli operai italiani..). Inoltre, lo scongiurato fallimento dell'industria automobilistica americana ha reso più plausibile la prospettiva di una ripresa economica mondiale (benché essa appaia ancora lontana). In questo contesto, il prossimo Presidente degli Stati Uniti potrà essere più o meno protezionista, più o meno incline alla retorica del "buy American", ma dovrá essere comunque un attivista internazionalista anche solo per difendere gli interessi americani. Certo, nel caso di un “neofita” come Romney, si tratterebbe di scontare un periodo di “apprendistato”, ma questo non è di per sé un fatto problematico.
Quanto a noi Europei, dovremmo imparare ad essere meno allarmisti. Ho sentito ripetere che il riferimento all'Europa è stato quasi del tutto assente dalla campagna presidenziale. Ma davvero? E di cosa si discettava, quindi, ogni volta che si faceva riferimento alla crisi finanziaria e alla questione dell'indebitamento pubblico? Come Romney ha dimostrato in una delle sue ultime uscite elettorali, l'Europa è ben presente nell'orizzonte politico americano, se non altro nei termini di "cattive pratiche" di finanza pubblica da non emulare; di rimando, gli Europei non cessano di ricordare ai dirimpettai dell'altra sponda dell'Atlantico che la crisi finanziaria globale ha avuto un "innesco" americano. Benché in termini critici, è in confronto vivace e vitale; sarebbe impensabile che la stessa cosa avvenisse, che so, tra Washington e Pechino senza provocare un duro scontro internazionale.
In generale, la visione del ruolo degli Stati Uniti nel nuovo contesto globale oscilla tra i due poli opposti del "declinismo" e del "primatismo". Per la prima scuola di pensiero, la traslazione del potere economico globale dall'Occidente all'Oriente relegherebbe gli USA  in una posizione difensiva, destinata tuttavia ad essere inefficace nel lungo periodo. Per gli assertori del "primato" americano, gli Stati Uniti sarebbero invece in grado di conservare ancora a lungo l'egemonia ideologica globale (con il liberalismo), oltre che in termini di capacità militari. John Hulsman e Anatol Lieven coniarono, qualche anno fa, l'espressione "realismo etico"; sembra un ossímoro, ma è in realtà l'unica politica estera praticabile - che si tratti o meno di una super-potenza - in un mondo sempre più difficile da interpretare.    

La trappola islamista


In tutti i processi politici complessi, e specialmente nelle transizioni, vi sono “attori” che non perseguono altro obiettivo che quello del ”deragliamento”. In altre parole, vi sono forze politiche, sociali ed economiche che scommettono sul fallimento piuttosto che sugli esiti positivi. Nella “primavera araba” i profeti di sventura non sono mancati in Occidente; ma non sono mancati – e non mancano tuttora – i “sabotatori” locali.  L’attentato all’Ambasciatore Stevens a Bengasi – e occorre ricordare che il suo “curriculum” ce lo mostra soprattutto come un uomo del dialogo – va analizzato alla luce di questo tentativo di far saltare il consolidamento democratico.  Ma bisogna  essere vigilanti e non cadere nella trappola nella quale gli “spoilers”, quelli che remano contro, ci vogliono attirare. Una prima lezione di questa prudenza ci viene proprio da Obama, che ha giustamente sottolineato, nella prima dichiarazione che ha fatto seguito all’attentato di Bengasi, come le religioni in quanto tali vadano tenute fuori da questo cinico gioco al massacro. E soprattutto ci mettono in guardia dal confondere il sentimento religioso di interi popoli con l’agenda politica di pochi. Ciò vale anzitutto per l’Islam, che è spesso ostaggio di “islamisti” i cui obiettivi hanno a che fare più con la conquista e conservazione del potere che con la diffusione del credo del Profeta.  Ma vale anche per l’Occidente “cristiano”, quando gli “atei devoti” utilizzano tragedie e lutti che colpiscono l’umanità intera come la conferma che nessun dialogo è possibile, che esistono culture e religioni “superiori” e che l’unica politica internazionale plausibile, in questi casi, è l’isolamento o l’esportazione armata della democrazia.  Era questo probabilmente l’obiettivo anche degli autori del film che ha scatenato l’indignazione e la protesta nel mondo islamico: una provocazione, per generare una reazione a catena che porti a concludere che nessuna “primavera” è possibile nel mondo arabo. La strategia europea verso queste aree dovrebbe essere improntata a.. maggior realismo: al contrario di quanto si crede, infatti, non è affatto “realistico” concepire tali società come completamente plagiate dalla logica dell’islamismo militante aggressivo.  Era inevitabile e scontato che gli eventi nella regione mediterranea e mediorientale avrebbero portato all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico-elettorale di nuovi attori; ed era perfettamente prevedibile la comparsa o il consolidamento di movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi precedentemente banditi dalla vita politica nazionale. Lungi dal demonizzare tale processo, si sarebbe dovuto prendere atto che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso avrebbe potuto essere messa a repentaglio.In Paesi come la Tunisia e l’Egitto, il dialogo politico di cui avremmo bisogno riguarda una vecchia idea europea. In molti Paesi del Vecchio Continente - ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia- sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose. L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale. Se è stata possibile una “democrazia cristiana” (come ragione dell’impegno politico dei credenti) perché permettere a pochi islamisti violenti e reazionari di convincerci che non sarà mai possibile una “democrazia islamica”? Attenzione: è questo che vogliono farci credere gli epigoni islamici dello scontro di civiltà. 

Il Cardinale Martini e la pace a Gerusalemme

Ho conosciuto il Cardinal Martini nel 2006, a Gerusalemme. Ero in missione, nelle mie funzioni diplomatiche, con l'allora Ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. In un incontro con diverse personalità della Chiesa cattolica in Medio Oriente, si affontarono in particolare i nodi della politica medio-orientale, ed in primo luogo la questione israelo-palestinese. Il Cardinale Martini ascoltò con grande attenzione le parole di D'Alema, che sosteneva (a ragione) che era sua convinzione che quando si sarebbe fatta la pace a Gerusalemme ci sarebbe stata pace nel mondo intero. Il Cardinale Martini annuì e con grande umiltá si disse d'accordo. Furono altri religiosi presenti all'incontro a ricordare che quella era da tempo una "profezia" formulata proprio dal Cardinale Martini nei suoi profondissimi scritti sulla Città Santa. Una bella coincidenza di visioni tra un laico ed un autentico testimone del Vangelo. Ricordo di Martini, già allora stanco ed affaticato, il sorriso sereno ed accogliente. Egli stesso ci raccontò di aver dato vita ad un gruppo di famiglie israeliane e palestinesi che avevano perso dei familiari nell'annoso conflitto che affligge la regione. Un segnale di pace semplice e concreto. Mi fece l'impressione di un fiotto di luce che si fa strada nel buio di un odio radicale ed apparentemente inestirpabile. La pace in Medio Oriente ha un nuovo "Mediatore" a cui rivolgersi per chiedere luce e speranza.

More things in heaven and earth

“There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy.” As in Shakespeare’s play Hamlet, we could remind analysts and political scientists that there are more categories of players in the international systems than suggested by the presently available labels. It is a commonplace, for instance, to contend that the world is becoming multipolar, and the main reason for this transformation is the rise of “emerging powers”. It is because of these new players that the world is thought to be experiencing a massive and global “shift of power”. This is undoubtedly true when we consider aggregated economic indicators; however, this may be less evident if the distribution of wealth (GDP pro-capita) is taken into consideration.
More fundamentally, the label “emerging power” completely lacks historical depth. When applied to China or India, and more in general to non-OECD countries, it is easy to understand that there was a time in history (early Middle Ages) when the balance of power (economically, but also militarily) was much more favorable to the latter. So, it would be more appropriate to refer to them as “re-emerging powers”. However, the task of labeling is always a slippery slope. Russia is the case in question. Is Russia a “re-emerging” country and on what account? Demographically, for instance, Russia has been declining for decades. Moreover, the definition doesn’t consider the profound transformation that took place in the transition from the Soviet “Empire” to the contemporary Russian State (still multinational, but more in line with the Russian state-formation in modern times).
The expression “emerging powers” also has a peculiar connotation in the narrative of “global order”. It seems to suggest that world politics are re-arranging themselves according to the political international equivalent of the “invisible hand” of the classic economic thought. Far from true. On the contrary, the new players inevitably bring with them a potential “disorder”, since they often are revisionist powers, not satisfied with the role distribution in the system of global governance. However, this situation doesn’t necessarily lead to what has been called the “age of entropy”, or a condition of increasing chaotic dynamics due to randomness and unpredictability.
All in all, the category of emerging power seems completely inadequate to understand the role of the new players. First of all, it doesn’t acknowledge the stage presence of the “non-westphalian” actors’ world politics , which are non-governmental in nature. These new players sometimes exert deep influence on the political choices of national governments. Second, the functions performed by the “emerging power” vary according to the attitude taken vis-à-vis the existing structure of the international system. Recent study (Cf. Randall Schweller, Emerging Powers in an Age of Disorder, “Global Governance” 17(2011), 285-297)demonstrates that, in Western minds, there are at least three different roles played by the emerging powers: spoilers, supporters, or shirkers.
Spoilers are not to be understood as radical revisionist powers, since there is no real interest for the new players to upset completely the existing international architecture. The preoccupation of the spoiler is trying to match the distribution of power with the distribution of prestige. In practical terms, this implies a demand to reform international organisations in order to reflect the new structure of power. A good example in this category is that of Brazilian foreign policy. But prestige always comes with a price, and it brings higher responsibility on the shoulders of the revisionists. Consequently, “pure” spoilers appear in the international arena less frequently that one could imagine.
The second possible role of the emerging powers is that of “supporters”. One potential example is India. In this case, the main assumption is that new players are eager to back the international (western) liberal order. From the Western point of view, this conviction takes the form of a plea to the new actors to play as “responsible stakeholders”. But newcomers do not necessarily fully endorse the priorities of the pre-existing international institution; sometimes, they aim to change world decision-making bodies from within. In this case, taking responsibility is not seen by the emerging powers as an unconditional duty, independent from the structure of global governance.
Third, the emerging powers are sometimes considered to be “shirkers” regarding the international order. The idea of “free-rider” is one element of this attitude; however, its consequences go well beyond enjoying someone else’s effort to create and maintain stability. Shirkers are often reluctant to take direct responsibility because they indirectly question the legitimacy of the existing international system, not in terms of the internal structure of the institutions, but because they challenge the agenda-setting and the decision-making process in world politics. This may be the case of China, at least in the eyes of several western countries, including the US. The net result of this attitude is not stalemate, but a progressive retrenchment of the “hegemons” from their global commitments. So, this attitude equates to an implicit medium and long-term strategy.
Those above being described as three theoretical models embracing the role of the emerging powers, it is necessary to understand that rising nations are not “unitary actors” as in the assumption of the neo-realist theory. Rather, they should be considered, like any other state, plural entities, or, more precisely, “conflicted states with multiple identities” (Randall Schweller, cit.). In other worlds, according to the circumstances, all three roles – spoilers, supporters and shirkers – can be played in turn by the rising powers. As a conclusion, we may say that categories are useful, but we should always bear in mind that there are “more things in heaven and earth”.

La lunga transizione araba

Uno scenario in chiaroscuro domina la "primavera araba" a più di un anno dal suo manifestarsi. Si scopre che la transizione alla democrazia è assai più lunga e tormentata delle attese. I casi di Tunisia, Libia e Egitto mostrano, emblematicamente, le profonde diversità tra i Paesi della regione. In Tunisia il compito è quello di dare uno spazio politico al pluralismo sociale. L'evento più importante è stata l'elezione dell’Assemblea nazionale costituente nell'ottobre 2011. Il partito di ispirazione islamica Ennahdha ha conquistato la maggioranza, ed ha espresso il Primo Ministro, Hamadi Jebali. Entro il 2013 la Costituzione dovrebbe essere pronta e si dovranno tenere le elezioni presidenziali, per chiudere la fase transitoria. Ma nel frattempo frange di salafiti sfidano la società pluralista con violente manifestazioni e il governo tunisino risponde con il coprifuoco. In Libia la sfida è molto più radicale. Si tratta di una rifondazione dello Stato, del passaggio dalle armi alle leggi, dalla guerra civile alla riconciliazione nazionale. I decenni di Gheddafi hanno smantellato le istituzioni come patrimonio di tutti; contavano solo le connessioni personali e familiari con il rais. A suo modo, un sistema "clanico" su vasta scala. Non è che lo Stato non esistesse: ma era uno Stato "privato", una contraddizione in termini. In Egitto, infine, si tratta di trovare l'alternativa ad uno stato "troppo forte" nelle mani di militari, che controllano anche buona parte dell'economia. E questo è un elemento di continuità con Mubarak. C'è una Costituzione provvisoria, ci sono state elezioni legislative vinte dai Fratelli Musulmani. Ma il Parlamento è stato sciolto alla metà di giugno per incostituzionalità della legge elettorale. Mossa rischiosa, ricorda troppo l'Algeria del 1992. In questo contesto caotico hanno avuto luogo le elezioni presidenziali, che hanno visto contrapporsi Ahmed Shafiq, già premier durante la presidenza Mubarak, e Mohamed Morsi, candidato del partito islamista. Shafiq rappresenta sicuramente il "vecchio", ma non è detto che Morsi rappresenti il "nuovo" in una società in profonda trasformazione. In ogni caso avere un Presidente senza una "vera" Costituzione ed un Parlamento in carica è un esercizio pericoloso. In Egitto esiste un altro potere, molto attivo e efficace: Piazza Tahrir. E' una "agorà" moderna, e non è detto che abbia sempre ragione, ma occorre tenerne conto se si vuole (democraticamente) governare e non solo (militarmente) decretare.

Cambiare rotta

Cambiare rotta. Questo il messaggio che le elezioni francesi e greche (quest'ultime da ripetere) hanno lanciato, forte e chiaro, all'Europa tutta. Anzi, per essere precisi, il messaggio è diretto  ad alcuni Goveni europei, ed anzitutto a quello tedesco, più che alle Istituzioni di Bruxelles. Cerchiamo, per una volta, di non fare di ogni erba un fascio: la Commissione Europea ed il Parlamento Europeo da tempo immemorabile, infatti, spingono per un governo politico dell'economia europea; e chiedono misure per la crescita, non solo per la disciplina di bilancio, pur necessaria. E non ha senso, oltre ad essere scorretto, accusare la Banca Centrale Europea di non fare abbastanza, senza poi darle i poteri per farlo. Ora l'elezione del socialista Hollande in Francia potrebbe cambiare l'agenda europea. Unitamente all'indebolimento di Angela Merkel a seguito dell'insuccesso della CDU nelle elezioni del Nord Reno - Westphalia, la vittoria di Hollande potrebbe dar luogo ad un nuovo patto franco-tedesco-italiano per mitigare gli effetti della crisi del debito. Quello che è accaduto in Grecia, con la frammentazione del quadro politico e l'impossibilità di formare un Governo, è frutto di un diverso sistema politico, che non è presidenziale come quello francese, ma parlamentare, e soprattutto non ha un secondo turno elettorale. Tuttavia, a parte questo elemento  non secondario, l'avanzata delle formazioni politiche estreme (con il grande consenso del "Front National" di Marine Le Pen) fa registrare notevoli analogie tra i due Paesi. E dunque i popoli europei sembrano dire a gran voce che così proprio non va, che occorre voltare pagina. Quale risposta può venire dalla politica? Meglio non menzionare nemmeno l'ipotesi di un'uscita della Grecia dall'eurozona: sarebbe l'inizio della fine. Questa non è più né  l'epoca delle rinunce né quella delle mezze misure. Solo la fiducia, anche in campo politico ed istituzionale, può farci uscire dalla spirale discendente nella quale siamo caduti dal 2008. Come si può aumentare il tasso di fiducia dei cittadini e dei mercati?  Non con le vuote dichiarazioni dei vertici. O i governanti europei mettono in atto un grande progetto che punti ad una maggiore integrazione e ad una tangibile solidarietà, in tutti i campi, da quello economico a quello politico, oppure non vi sarà nulla che possa rassicurare i popoli e le borse, e soprattutto fermare da una parte la caduta dei consensi verso l'Europa e dall'altra la speculazione ai danni dell'Euro. E soprattutto non vi sarà nessuna crescita possibile.

L'Unione incompiuta

Cos'è oggi l'Unione Europea? Partiamo dalle conquiste, prima di elencare le innegabili criticità. È in primo luogo un’unione doganale. La vicenda europea prende corpo, negli anni '50, proprio con l'eliminazione delle barriere commerciali. Una cosa non secondaria, visto che quegli invisibili muri infra-europei avevano alimentato conflitti per secoli. Ma oggi l'UE è soprattutto un mercato unico, nel quale sono stati rimossi gran parte degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei lavoratori, dei capitali e dei servizi. Per i Paesi che partecipano all'accordo Schengen, è anche un'area di libera circolazione delle persone in quanto tali. Ed è un'Unione Monetaria, benché essa non coinvolga tutti i Paesi, ma solo i membri dell'Eurogruppo. Oggi l'UE è un attore commerciale globale, capace di influenzare le politiche dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. Inoltre, è un vasto sistema di regolazione; nonostante gli eccessi, veri o assai spesso inventati, questa attività della Commissione Europea per trovare standard comuni in vari campi economici e sociali, è un potente fattore di integrazione, e produce vantaggi evidenti per tutti i cittadini europei. Oggi l'Europa è un’area geo-politica di affermazione dei diritti, con un ruolo riconosciuto a livello globale.
Quali sono, invece, i limiti dell'Unione Europea? Si tratta di un sistema politico incompiuto, in cui, ad esempio, il Parlamento europeo non esprime una vera maggioranza politica a sostegno della Commissione (che è solo un "accenno" di Governo europeo). È un sistema istituzionale complicato e poco comprensibile, in cui la divisione dei poteri e delle responsabilità non è affatto chiara. Come conseguenza, il processo decisionale è farraginoso e inefficace, tra Consiglio dei Ministri, Consiglio Europeo, Commissione, Parlamento, figure istituzionali non chiaramente definite (ad esempio, Presidente della Commissione, Presidente del Consiglio Europeo, Presidente di turno semestrale). La verità è che l'UE rimane un insieme di democrazie nazionali, spesso in competizione, con una debole dimensione europea. In questo contesto, la cittadinanza comune europea rimane limitata e marginale, nonostante la retorica che l'accompagna. Ad esempio, le elezioni europee sono in realtà un mosaico di elezioni nazionali, per non parlare dei referendum. Di partiti veramente europei non c'è traccia; le "famiglie politiche" del Parlamento europeo sono sempre più articolate e dissimili al loro interno, perché prevalgono le logiche nazionali. Infine, l'UE come tale è un’entità poco incisiva sulla scena internazionale, e la politica estera rimane anch'essa sostanzialemente nazionale, e quindi asfittica in un mondo in rapido cambiamento.
In sintesi, l'Unione Europea deve ancora trovare la strada per diventare un’autentica democrazia europea transnazionale, basata sul principio di sussidiarietà; un’area politico-economica coesa e solidale; una società integrata e pluralista; un attore globale responsabile e attivo, sulla base di una politica estera comune.

Dalle radici al fiume





Ha un titolo volutamente polemico, il bel libro di Maurizio Bettini, "Contro le radici", pubblicato di recente dal Mulino. Nonostante il titolo, si tratta di una confutazione al contempo raffinata e concreta del "mito" delle radici culturali o delle civiltà. La mitizzazione dell’identità e della tradizione costituisce una reazione, non solo in Occidente, ai grandi sconvolgimenti provocati dalla modernità. Come scrive Francesco Lubian, " alla globalizzazione e ai fenomeni migratori, insomma, si tende a reagire rafforzando (al limite: inventando) una cultura fortemente identitaria, che trova un perfetto paradigma metaforico nella “radice”, immagine di cui Bettini ricostruisce da par suo la genealogia: grazie a questa metafora la tradizione si trasforma in qualcosa di biologicamente primordiale, che sorregge e nutre, godendo di un rapporto privilegiato con la terra. Lo studio della metafora delle radici smaschera il dispositivo di autorità che alimenta di nuclei semantici forti (vita, natura, terreno) in grado di rendere, oggi, il discorso sulla tradizione particolarmente forte e pervasivo a ogni livello culturale, come dimostrano gli stralci dei discorsi di Marcello Pera e i comunicati della Lega Nord citati a più riprese dall’autore. Dietro questa forza, però, albergano grandi pericoli, come la storia, dalla guerra fra Troiani e Latini a quella fra Hutu e Tutsi, non smette di ricordarci." . In un articolo pubblicato da La Repubblica il 24 gennaio 2012 "Contro il mito delle radici", Bettini sintetizza efficacemente la sua critica alla metafora "radicale". "Nel nostro dibattito culturale sempre più frequentemente ricorre l' associazione fra tradizione e identità, quasi che l' identità collettiva - l' identità di un certo gruppo - dovesse essere concepita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione. Una delle affermazioni oggi più circolanti è proprio la seguente: «l' identità si fonda sulla tradizione». Basta rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati contro l' immigrazione, in particolare islamica, e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati. Ora, il rapporto di causa / effetto che viene stabilito fra tradizione e identità - l' identità è prodotta dalla tradizione - emerge direttamente dalle stesse metafore che vengono usate per parlarne. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese, infatti, l' immagine più ricorrente è quella delle radici. Queste sono le nostre radici, si dice, questo dunque siamo "noi". Basta ricordare l' acceso dibattito relativo alla proposta di inserire nel preambolo della costituzione europea una menzione delle radici cristiane dell' Europa. L' immagine arboricola intendeva sottolineare il rapporto di stretta interdipendenza che, a parere dei sostenitori di questa tesi, legherebbe fra loro la cultura europea da un lato, il cristianesimo dall' altro. (...) In questa selva di radici identitarie c' è un aspetto generale della questione che merita di essere messo in evidenza: le immagini non sono oggetti neutri, anzi, molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. Ciò che definiamo "metafora" non è solo un ornamento del discorso, è anche un potente strumento conoscitivo. Così accade anche nel caso delle radici. Questa immagine ha infatti la capacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle determinazioni filosofiche o antropologiche, l' immagine delle radici permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione. (...) In una discussione sulla tradizione, anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci da che cosa sia concretamente costituita la tradizione di cui parla. Lo stesso discorso vale per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco il motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far balenare di fronte agli occhi dell' ascoltatore semplicemente delle radici. Ma che cos' hanno poi, di così efficace, queste radici? (....) Le radici stanno immerse nella terra, il luogo da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna; le radici sostengono la pianta, che altrimenti cadrebbe al suolo; e soprattutto le radici trasmettono al tronco, ai rami e alle foglie il nutrimento di cui hanno bisogno. Tramite l' immagine delle radici, e dunque dell' albero, anche la tradizione si muta in qualcosa di biologicamente primordiale, che sta immerso nella terra, qualcosa che sorregge e nutre - chi? Ovviamente noi, la nostra identità. Il rapporto di determinazione fra tradizione e identità assume in questo modo l' aspetto di una forza che scaturisce direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel certo albero perché è cresciuto da quelle radici, noi siamo noi perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione culturale. In un certo senso, è come se noi non potessimo essere altrimenti: se si dà retta a questa metafora, la nostra identità finisce ineluttabilmente per essere determinata dalle nostre radici, cioè dalla tradizione cui si appartiene. Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo scopo: costruire un vero e proprio dispositivo di autorità, che, attraverso i contenuti evocati dall' immagine, si alimenta di nuclei semantici forti quali la vita, la natura e la necessità biologica. Una volta che questo dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la conseguenza non può che essere la seguente: l' identità culturale predicata attraverso la metafora delle radici viene estesa a un intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. Un ramo può forse decidere di non appartenere all' albero con cui condivide le radici o, addirittura, di non essere un ramo? Una volta "radicati" in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità culturale diventa impossibile, ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per noi." "É per questo che Bettini - commenta Lubian- suggerisce di abbandonare, per quanto riguarda l’identità, la metafora delle radici per scegliere invece quella del fiume, immagine che valorizza la portata di tutti i diversi apporti secondo un paradigma di orizzontalità e non più di verticalità: anche l’identità, del resto, risulta in ultima analisi il frutto di un incessante processo di continua reinvenzione." Il fiume fluisce, a volte scorre placido, a volte è irruento; in alcuni tratti assomiglia a un lago, in altri dà origine a cascate fragorose; a volte è compatto, a volte si divide e si "complica" in molti rami; riceve i contributi di altri corsi d'acqua, oppure procede solenne e solitario verso la foce. Insomma, il fiume è una realtà cangiante e dinamica. La metafora del fiume è assai più democratica di quella delle radici.