DISASTRI E POLITICA: DA KATRINA ALLA DEEPWATER HORIZON

In che modo il disastro dell’uragano Katrina e quello della piattaforma petrolifera offshore Deepwater Horizon– entrambi riguardanti il Golfo del Messico e la Città di New Orleans - rappresentano una manifestazione delle nuove fattezze della politica globale? La risposta l’ha data da tempo Ulrich Beck, che considera l’elemento “rischio” la caratteristica fondante della fase globale che viviamo. Secondo Beck, nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi. I rischi diventano una caratteristica «genetica» dell’attuale modello di civiltà. Inoltre, la nuova situazione del rischio globale contiene in sé un’inarrestabile tendenza a trasformare in questione politica ciò che nella modernità era ascritto all’universo dell’economia e della produzione (è la cosiddetta «esplosività politica» dei rischi). Ulrich Beck afferma che con la dissoluzione dell’ordine bipolare siamo passati da un mondo di nemici a un mondo di pericoli e di rischi. C’è – sostiene Beck - un potenziale politico delle catastrofi: la necessità di proteggersi da esse e di gestirle può comportare una riorganizzazione di poteri e competenze. La società del rischio è una società catastrofica. In essa lo stato di emergenza rischia di diventare la norma. Né vale a distinguere le due situazioni – Katrina da una parte e Deepwater Horizon dall’altra – la circostanza che nel primo caso si trattava di un fenomeno meteorologico (un uragano), e quindi non direttamente connesso ad un’attività umana, mentre nel secondo caso - risalendo indietro nella concatenazione causale - il disastro è opera dell’uomo. Al netto di questa differenza, certamente non secondaria, c’è un comune elemento “globalistico” nelle due vicende? Se è diventato uno slogan ripetere che la nuova dimensione nella quale ci troviamo è “glocal” (vale a dire che in essa occorre “agire localmente, ma pensare mondialmente”), credo che più opportunamente la situazione presente sia invece definibile, a seconda dei casi, o come la globalizzazione dei rischi locali o come la localizzazione dei rischi globali. Entrambi i fenomeni, pur operando diversamente, generano una sorta di “cosmopolitismo coatto”, vale a dire una solidarietà di fatto tra tutti coloro che sono esposti ai rischi planetari potenziali. I cambiamenti climatici sono innescati da intense attività localizzate, ma hanno ripercussioni planetarie. Al contrario, vi sono attività economiche globali che hanno profonde ripercussioni locali. E’ il caso dell’estrazione di petrolio della BP dal Golfo del Messico. Quali sono i fatti di riferimento? Una compagnia globale mette in atto attività rischiose concentrate, invece, in una specifica porzione del globo. I danni che inizialmente si manifestano localmente (con conseguenze nefaste per il delicatissimo ecosistema dell’area e per le attività economiche) possono, alla lunga, investire altre regioni del globo (ad esempio se la “macchia nera” si innestasse nella corrente del Golfo, che lambisce le coste del nord Europa). Non meno gravi le ripercussioni politiche: nel caso specifico, il Senato degli Stati Uniti si trova ad esaminare – in un clima di forte indignazione e reazioni emotive dell’opinione pubblica - un progetto di legge in materia energetica introdotto dai senatori John Kerry e Joe Lieberman, che dovrebbe dettare alcuni parametri dell’adattamento dell’economia americana al regime delle emissioni inquinanti di cui si è discusso, tra l’altro, al vertice sull’ambiente di Copenhagen. Senza contare i contraccolpi sul dibattito, già incandescente dopo la crisi finanziaria cominciata nel 2008, sulla responsabilità “sociale” e sulla deontologia delle imprese e dei loro manager. Tutto questo non deve apparire come un’indebita generalizzazione di “incidenti” isolati o di eventi destinati a non ripetersi (è vero, purché si precisi che cambia solo la modalità, non la sostanza). Deve piuttosto indurre a considerare il concetto di sicurezza in termini assai più ramificati di quanto non siamo abituati a concepirlo (sia in termini di incolumità personale che in quelli di “difesa” militare). Accanto alla nozione – oggi popolare – di una responsabilità sociale e ambientale delle imprese multinazionali, le vicenda dell’uragano Katrina e della Deepwater Horizon ne hanno fatto emergere un’altra, meno conosciuta nel Vecchio Continente, e cioè una sorta di responsabilità oggettiva del potere politico: a carico di Bush nel primo caso e di Obama nel secondo. Il disastro in sé implica, come conseguenza immediata, una presunzione di colpa, se così posso esprimermi, di chi detiene il potere pro-tempore. Ma allo stesso potere viene poi offerta la possibilità di dimostrare la propria efficienza e capacità di leadership. Sono le politiche attuate a partire da tali eventi a qualificare una Presidenza. E’ un modo, per quanto contorto e non privo di contro-indicazioni, di saggiare il valore di un esponente politico, di verificarne la “consistenza” pragmatica ed etica, di riaffermare che nella società globale del rischio è pur sempre la politica a poter fare la differenza. Sempre che ne sia all’altezza.

I “Diagonal Players”

Una fastidiosa abitudine tra gli analisti di politica internazionale è quella di generare nuovi acronimi ad ogni pie’ sospinto. Benché difficilmente intellegibili a primo acchito, essi entrano progressivamente nel discorso pubblico. A parte le innumerevoli sigle di organizzazioni internazionali di varia natura, alcuni di tali acronimi tendono tuttavia a designare in modo sintetico fenomeni di grande rilevanza. Uno di questi è BRICs, cioè Brasile, Russia, India e Cina, che vengono inclusi nella categoria (di dubbia coerenza interna) di Paesi emergenti. I BRICs rappresentano una prima innovazione nel concepire le relazioni internazionali al di là degli schemi dei discussi raggruppamenti “G” (G8, G13, G14, G20 e G2). Un altro acronimo di nuovo conio è quello, meno noto, di IBSA (o IBAS), che comprende India, Brasile, Sudafrica. I due raggruppamenti hanno tenuto due vertici, in aprile, a Brasilia: il secondo dei BRICs e il quarto degli IBSA. Da una parte, si tratta di nuove strutture informali scaturite dai mutamenti in corso sulla scena internazionale; dall’altra, di tentativi di influenzare e indirizzare il cambiamento. Anche dal punto di vista delle grandi tematiche globali appaiono nuove “cleavages” o fratture che non rispecchiano minimamente quelle note. Ad esempio, alla tradizionale distinzione nord-sud si sostituisce il rapporto complesso dell’Occidente con il Sud Globale. E rischiano di manifestarsi nuove polarizzazioni, come quella tra Paesi legalmente dotati di armi nucleari (NWS) in base la Trattato in non proliferazione e Paesi che ne sono privi (NNWS). Senza contare le aggregazioni che scontano una sorta di crisi genetica d’identità, come quella di cui si è parlato al Vertice di Copenhagen sui cambiamenti climatici, e cioè “Paesi maggiormente colpiti dal mutamento climatico” che talvolta corrispondono anche a quelli che di tali cambiamenti sono corresponsabili. In questo scenario va inquadrato il tentativo di “mediazione” compiuto da Brasile e Turchia sul programma nucleare iraniano. A prescindere dalla validità e credibilità di tale intesa, è innegabile che si sta giocando una partita più ampia e forse più rilevante per i cambiamenti che annuncia a medio-lungo termine. Una prima considerazione appare ovvia. Brasile e Turchia, in questo momento membri di turno, a termine, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, hanno cercato di aggirare lo scoglio di una decisione comportante nuove sanzioni contro l’Iran. Ma c’è di più. L’iniziativa diplomatica turco-brasiliana segna in qualche modo un momento di svolta. Il Brasile sta ormai chiaramente emergendo come un Paese con aspirazioni globaliste: ha un ruolo propulsivo nel G20, e vuole porsi (forse assieme al Messico, che però guarda di più al grande vicino a Nord del Rio Grande) come punto di riferimento per una nuova collocazione dell'America Latina sulla scena mondiale. Da tempo il Brasile svolge ad esempio una politica globale nel settore dell'energia: basti pensare alla compagnia petrolifera di Stato Petrobras e alla sua crescente attività in Africa. Non ce ne dovremmo lamentare, visto che talvolta, invece, ci lamentiamo che la Cina è elusiva nel giocare una funzione davvero “globale”, avendo preferito per molto tempo la posizione del “free (economic) rider” (ora un po’ meno, per forza di cose). A questo si aggiungono le perplessità della diplomazia brasiliana e latinoamericana in genere sul sistema delle sanzioni: viene spesso citato il caso di Cuba, dove anni di embargo hanno paralizzato in parte l'economia, senza alcun risultato politico rilevante. Da parte sua, la Turchia aspira a (o è indotta a) svolgere un ruolo regionale in Medio Oriente. Ad ogni modo, è interessante questo tentativo da un lato di uscire dallo schema violazione/sanzione e dall’altro di far funzionare nuovi equilibri mondiali con nuovi attori. Ma attenzione a valutare questi nuovi segnali con categorie superate. Per prima cosa, non siamo affatto dinanzi ad una rivisitazione in chiave post-moderna dell'asse dei non allineati. Il contesto è molto diverso da quello degli anni Settanta: Brasile e Turchia sono due membri importanti del G20, non “outsiders” rispetto a un blocco omogeneo. La Turchia è addirittura membro della NATO e Paese candidato (per quanto tempo ancora?) all’ingresso nell’Unione Europea. C’è un modo diverso di guardare a questo originale binomio, ed è quello di considerare i due “attori” come Paesi che iniziano a prendere sul serio l'idea di sovranità responsabile, anche come prova di credibilità internazionale, per far sentire la propria voce. Quindi, Paesi nuovi per uno schema nuovo? La cautela è d’obbligo, anche perché il “test” prescelto, e cioè trovare una via d’uscita all’impasse sul programma nucleare iraniano, è tra i più difficili da superare. Più che altro si tratta di due Paesi con un approccio più “fresco” al negoziato, anche perché non coinvolti nella fase precedente (e cioè nel formato “5+1”). In ogni caso, l’iniziativa turco-brasiliana segna un importante elemento di novità: è forse la prima dimostrazione delle potenzialità e della determinazione a “contare” di nuovi protagonisti, non solo nei settori tradizionali del G20 (cambiamento climatico, sicurezza alimentare) ma anche nel campo della sicurezza “politica”. Indulgendo per una volta ancora nel gioco delle sigle, come potremmo “battezzare” dal punto di vista delle definizioni e degli acronimi questa “nuova tendenza”? Accanto ai tradizionali “Global Players” fanno la loro comparsa i “Diagonal Players”: Paesi-incursori che – in una visione, una volta tanto, ottimistica - si inseriscono nelle criticità del sistema, attuando una politica “interstiziale” per tentare di sbloccarne i meccanismi e gli ingranaggi inceppati. L’era dei DPs?