Le sfide della nuova Commissione Europea, che avvia concretamente il suo mandato in Novembre, sono fondamentalmente di due tipi. Da una parte, l’assetto interno, non privo di conseguenze sulle modalità di operare del nuovo Collegio e anche sulla sua capacità di ottenere risultati tangibili; dall'altra, il varo di politiche rese necessarie e urgenti da un contesto europeo e mondiale che si presenta con caratteri che non pare esagerato definire emergenziali.
Jean-Claude Juncker è certamente un europeista, ma è anche e soprattutto un politico pragmatico e di grande esperienza. A parte le circostanze particolarmente innovative che lo hanno portato a essere designato Presidente della Commissione a seguito di una sorta di investitura “elettorale” al contempo informale e indiretta, Juncker ha sin dall’inizio dedicato una speciale attenzione al funzionamento della Commissione, un organo collegiale di 28 membri che nel tempo, anche in ragione della frammentazione interna, ha perso di mordente rispetto al processo integrativo e soprattutto nei confronti della “rivincita” dei governi nazionali sulle istituzioni comuni. La struttura della nuova Commissione cerca di rimediare, in qualche modo, alla dispersione delle competenze, istituendo nei fatti una sorta di inner cabinet formato, oltre che dal Presidente, da sette commissari con forti funzioni di coordinamento rispetto ai portafogli distribuiti agli altri Commissari. Sarà – ha detto Juncker – una Commissione certamente “politica”, ma non “politicizzata”. I commissari-coordinatori provengono, comprendendo anche lo stesso Presidente, da tre delle famiglie politiche europee: quattro popolari (Juncker, Georgieva, Katainen, Dombrovskis), tre socialisti (Timmermans, Sefcovic e Mogherini), un liberale (Ansip). Tuttavia, nella visione di Juncker, la Commissione deve anche rimanere un’istituzione di garanzia, in grado di rappresentare l’interesse dell’Unione in quanto tale e non divenire né una cassa di risonanza dei gruppi del Parlamento Europeo, né una replica delle delegazioni nazionali al Consiglio; compito, quest’ultimo, divenuto assai complesso, da quando è stato cancellato il principio, affermatosi nel corso del negoziato che portò al Trattato di Nizza, che il numero dei Commissari dovesse essere inferiore al numero degli Stati membri dell’Unione.
Nella ristrutturazione della Commissione, operata senza introdurre riforme epocali e sfruttando il principio della libertà di auto-organizzazione delle istituzioni, spicca la novità della creazione della carica di un primo Vice-Presidente unico, assegnata all’olandese Frans Timmermans. Il suo portafoglio comprende questioni “orizzontali” di grande rilievo, come le relazioni inter-istituzionali (con il Parlamento e con il Consiglio), la Carta dei diritti fondamentali, e soprattutto il tema strategico dei negoziati per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) nei suoi risvolti per le competenze nazionali in materia di contenziosi con investitori esteri. In pratica, la nomina di Timmermans crea, si direbbe, una categoria di Commissario a parte, con funzioni reali di deputy rispetto allo stesso Juncker, e in posizione chiaramente differenziata rispetto agli altri sei Vice-Presidenti. Resta da capire se questa disseminazione di ruoli integrativi delle diverse politiche si rivelerà un ridimensionamento della funzione di indirizzo politico del Presidente della Commissione (“sono troppo anziano per iniziare una nuova carriera come dittatore”, come ha detto Juncker, tra il serio e il faceto), oppure, al contrario, rafforzerà i caratteri più marcatamente strategici della sua missione.
Nel complesso, si tratta di un riaggiustamento di competenze a seguito delle audizioni dei Commissari da parte del Parlamento Europeo, che hanno portato, tra l’altro, a un “rimpasto” complesso e dagli esiti non scontati. In primo luogo, la sostituzione della Commissaria slovena (auto-nominatasi!), l’ex Primo Ministro Alenka Bratušek, con Violeta Bulc e la conseguente riconfigurazione del corrispondente portafoglio (trasporti). In secondo luogo, la conferma sofferta (a causa delle politiche del governo di Budapest in materia di libertà di espressione e pluralismo, fortemente contestate da buona parte del Parlamento Europeo) del Commissario ungherese Tibor Navracsics dopo la sottrazione delle questioni della cittadinanza europea alle sue responsabilità originarie (istruzione, cultura, gioventù). Si è avuta poi la riassegnazione della gestione della stessa cittadinanza al greco Dimitris Avramopoulos nel contesto di un ampio e sensibilissimo dossier, che comprende migrazioni e affari interni.
Tutta la vicenda della nomina della Commissione e della sua approvazione da parte del Parlamento Europeo si è svolta con una spiccata (per taluni, velleitaria) caratterizzazione politico-parlamentare, quasi a voler segnare, almeno nell’intenzione dell’Assemblea di Strasburgo, una nuova fase nell’equilibrio inter-istituzionale. L’ex Premier belga e europarlamentare Guy Verhofstadt ha non a caso evocato in chiave critica il ruolo della Commissione nell’ultimo quinquennio, accusata di essersi ridotta a un “Segretariato del Consiglio”.
Oltre agli aspetti strutturali del nuovo Esecutivo dell’Unione, ben più impegnative si prospettano le sfide delle politiche, quasi tutte legate, direttamente o indirettamente, alla capacità (o incapacità) dell’Unione di trovare un nuovo passo rispetto alla riconfigurazione del potere mondiale e all’emergere non solo di crisi, ma di veri e propri conflitti ai suoi confini (Ucraina, ISIS, Libia). Lo stesso obiettivo di Juncker di ottenere una “tripla A” per l’Europa non solo nel campo finanziario ed economico, ma anche in quello delle politiche sociali, dipende da come l’Unione riuscirà ad attrezzarsi per far fronte a quella che potrebbe essere considerata come una nuova fase della globalizzazione, meno cosmopolita e più conflittuale. Il neo-Presidente della Commissione ha utilizzato toni per molti versi drammatici, caratterizzando questa legislatura europea come una sorta di “ultima spiaggia” per risollevare le sorti dell’Europa.
Come la Commissione, anche e soprattutto il Consiglio dovrà compiere uno sforzo di integrazione delle politiche, anche se sinora i segnali continuano ad andare nella direzione della frammentazione e della ri-nazionalizzazione (in termini persino rivendicativi della sovranità “ceduta”) del discorso politico sull’Unione e dell’Unione. Da questo punto di vista, la nuova Commissione si troverà nel bel mezzo della frattura tra le diverse e talvolta incompatibili concezioni di Europa, a cominciare dal Patto di stabilità (e le sue interpretazioni “flessibili” invocate da Francia e Italia) per finire alla questione sociale, politica ed economica - ancor prima che umanitaria - delle migrazioni. Senza trascurare, ovviamente, il peso del “fronte interno”, in un momento in cui l’euro-scetticismo (o, meglio, un vero e proprio anti-europeismo) diviene una forza politica più o meno coesa e organizzata, ma in ogni caso espressa da almeno un quarto dei componenti del nuovo Parlamento Europeo. Si capisce, a questo riguardo, come in questo ambiente tendenzialmente ostile sia difficile persino pronunciare la parola “allargamento” dell’Unione a nuovi Stati, a cominciare dai Balcani ma anche rispetto alla deriva di disimpegno assunta, purtroppo, dall’Europa nei rapporti con la Turchia, e viceversa. Tuttavia, prima o poi, come tragicamente insegna il centenario della prima guerra mondiale commemorato nel 2014, i conti con la storia e con il futuro bisognerà farli. O l’Unione pensa in questi termini strategici, oppure si trasformerà in un’area ininfluente, basata sulla gestione tecnica di questioni tecniche: un destino a cui la condannerebbe l’asfittica pseudo-politica nazional-europea, condotta (si fa per dire) da 28 governi.