A metà della seconda decade del 21º secolo si fa fatica a identificare i caratteriprecisi di un sistema internazionale che è ben lontano dalle fattezze dell'ordine. Quello che è certo è che la lunga transizione iniziata con la fine della guerra fredda non solo non è ancora giunta a maturazione, ma sta assumendo i tratti della confusione globale.
Diventa sempre più evidente che le forze economiche della globalizzazione si confrontano con quelle ben più antiche e profonde delle culture e delle identità. La globalizzazione, infatti, non ha nulla a che vedere con l’universalità; è unilaterale, caratterizzata in senso geo-culturale come emanazione dell’era (e dell’area) euro-atlantica, e in quanto tale strutturalmente egemonica.
In alcune aree del mondo, ed in particolare in Medio Oriente, si manifestano fattori di instabilità che vanno ben oltre il concetto di scontro di civiltà. In molti casi, un rozzo radicalismo si unisce a pratiche di violenza e di intolleranza che sembravano essere relegate negli archivi della storia.
In questo contesto già di per sé critico, l'errore più grave che potremmo compiere sarebbe quello di cadere nella trappola tesa da pseudo-islamisti sanguinari, che hanno tutto l'interesse a radicalizzare l'opposizione all'occidente in termini di guerra di religione.
Purtroppo, prestigiosi intellettuali ed editorialisti italiani e stranieri hanno esortato l'opinione pubblica europea a prendere atto di questa situazione di belligeranza a sfondo religioso e hanno sostenuto che non si tratterebbe di una novità, in quanto guerre di religione costellano l'intera storia dell'umanità.
In realtà, è proprio la storia ad insegnarci che le guerre più devastanti e i conflitti più cruenti hanno avuto luogo per ragioni che non hanno nulla a che fare con la religione. Basterebbe ricordare, ad esempio, che la prima guerra mondiale - che nel 2014 viene tristemente ricordata a un secolo dal suo inizio - non aveva certo motivazioni di carattere religioso (era uno scontro tra nazioni “cristiane”), né le aveva la seconda guerra mondiale. Persino il conflitto israelo-palestinese non nasce da radici religiose, essendo essenzialmente - fino a tempi recenti - una questione di territori e di sovranità. Le famose “guerre di religione” che, secondo la narrazione liberal-democratica, imperversarono in Europa nel 17º secolo, erano in realtà causate da mire espansionistiche,questioni dinastiche e dallo stesso processo di formazione dello stato moderno,il quale, lungi dall'averci salvato dalla guerra, al contrario l’ha resa più assoluta e devastante. Non è stata la religione a inventare l’arma atomica, ma la politica contemporanea.
Il militarismo, l'egemonia economica, l'intolleranza a tutti i livelli sono cause di conflitto unitamente a tanti altri fattori sociali e culturali di cui la religione costituisce solo una componente. Persino gli aguzzini dell'ISIS perseguono non tanto il trionfo dell'Islam in quanto tale (o una concezione falsificata e strumentale di tale religione) ma la formazione di un’entità politica di natura statuale o addirittura dei tratti vagamente imperiali come il califfato. Paradossalmente la loro assoluta e dogmatica opposizione all'occidente si fonda sull’accettazione distorta di una delle istituzioni politiche inventate proprio nel mondo euro-atlantico, e cioè lo stato moderno e il connesso apparato di potere, per non parlare degli strumenti tradizionali di tutti “i troni e le dominazioni” in ogni tempo e in ogni angolo del mondo, come il genocidio, la propaganda e persino l'uso cinico degli strumenti della comunicazione visiva e della rete globale.
Tutto ciò ha molto poco a che fare con la religione e invece ha molto a che vedere con le consuete ricette del dominio di oligarchie e della prevalenza di strutture improntate alla cultura bellica. Persino il meccanismo volutamente terrorizzate delle raccapriccianti esecuzioni di innocenti risponde a una logica di controllo sociale e dell’opinione, come ha dimostrato Foucault in “Sorvegliare e punire”: chi usa tali meccanismi di psicologia sociale ricerca l’altrui sottomissione e un governo basato sull’intimidazione e la minaccia.
Da ogni punto di vista, nel caso dell'ISIS e di tutte le altre organizzazioni assimilabili si dovrebbe parlare non tanto di guerre di religione ma, più concretamente, realisticamente e prosaicamente, di religione della guerra. Sono infatti la politica di potenza, la sete di conquiste territoriali e l’esercizio del potere senza scrupoli le motivazioni delle presunte guerre di religione!
Tantomeno ha senso parlare di scontro di civiltà (spesso mescolate in un minestrone indigesto con le culture e le religioni, che sono ben altra cosa); in realtà si dovrebbe riconoscere l'esistenza di uno scontro all'interno delle civiltà tra coloro che intendono l'identità in senso esclusivista e aggressivo e quanti invece considerano che essa è sempre il risultato di incontri, confronti,interazioni, scambi e reciproche “contaminazioni”. L'intellettuale di origine libanese Amin Maalouf scrisse qualche anno fa un libro il cui argomento fondamentale erano le cosiddette “identità assassine”, proprio a sottolineare la deriva violenta che i riferimenti alle tradizioni, alle culture e alle religioni possono assumere se non mediate in un contesto di pluralismo e di dialogo tra le differenze.
Gli attentati, i bombardamenti, le distruzioni che colpiscono Chiese cristiane di ogni denominazione, Sinagoghe, Moschee sunnite e sciite, Templi buddisti e sikh, dovunque siano situati, sono la riprova che si tratta non di guerre di religione, ma dell’anti-religione per eccellenza, visto che le vere religioni hanno a cuore, piuttosto, l’unità dell’umanità e l’armonia con il creato.
In definitiva, continuare a parlare di guerre di religione come un fenomeno riprovevole sembrerebbe assolvere implicitamente altre tipologie di guerre, che invece sarebbero razionali e in linea con la modernità, come se la guerra in quanto tale non fosse, di per sé, senza alcuna aggettivazione, un relitto della storia, una pratica barbara da abbandonare, una “istituzione” che ha dimostrato di essere fallimentare se pensata come un “praticabile” strumento politico o sociale.
Chiara Lubich affermava con grande lucidità e saggezza, indicando un cammino di unità pur pienamente consapevole delle criticità mondiali, che “è finito il tempo delle ‘guerre sante’. La guerra non è mai santa, e non lo è mai stata. Dio non la vuole. Solo la pace è veramente santa, perché Dio stesso è la pace.”