Cercando un’immagine adatta per rappresentare le relazioni internazionali nel mondo contemporaneo, la scelta spesso si impone tra quella della torre e quella del ponte.
La torre è un elemento architettonico di tipo essenzialmente militare, ed esemplifica una percezione di minaccia, che provoca un atteggiamento di allerta e di allarme. La torre è la quintessenza del riflesso difensivo, dell’«arroccamento», del senso dell’assedio e del timore dell’invasione.
Il ponte, al contrario, per definizione unisce due territori che in sua assenza rimarrebbero divisi, delimitati da un fiume o da un fossato che altrimenti sarebbe ben arduo varcare. Il ponte, a suo modo, è un invito alla comunicazione, al contatto diretto, al dialogo.
Guardando alla complessità che costituisce la cifra distintiva del mondo in cui viviamo, c’è da chiedersi se queste due immagini – la torre e il ponte - siano ancora due alternative adeguate. Siamo entrati in un’era in cui le relazioni diventano in gran parte immateriali e non hanno necessariamente bisogno di «ponti» per realizzarsi ed in cui è divenuto fin troppo semplice diroccare o abbattere «torri» militari o «civili».
Per restare nella metafora architettonica, il mondo contemporaneo – senza indulgere affatto nelle semplificazioni falsificanti sulla presunta «piattezza» del globo - assomiglia sempre più a una struttura aperta, un’agorà, una piazza: il luogo dell’incontro, il luogo dell’uguaglianza.
Ma è anche il luogo ove si forgiano una nuova identità comune, un nuovo senso di mutua appartenenza planetaria? Non sempre, anzi. La verità è che c’è bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un «new deal» globale, una nuova alleanza più inclusiva, pluralista, paritaria, che vada ben oltre le alleanze militari ed economiche esistenti (oltre la «torre» ed il «ponte»).
Non è per nulla un progetto utopico; basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo è realistico, ma anche urgente e necessario. La nuova «governance globale» di cui tanto si parla, ma di cui sinora poco si è visto, se non progetti neo-egemonici, può rappresentare un’occasione unica. Purché passi dalla dimensione globale a quella davvero mondiale o universale. L’United World Project, con il suo valore altamente simbolico, con la sua freschezza ideale e realizzativa, è uno di quelle “sentinelle dell’alba” che annunciano un nuovo giorno, un nuovo inizio. Nel nostro mondo abbondano le idee “grandiose”; ma mancano le idee davvero “grandi”, anche se si presentano con le dimensioni di un piccolo seme. Coltivare questo seme, farlo germogliare e crescere, è il compito – quotidiano e paziente, ma non per questo meno “strategico” – di giovani dalla vista lunga, che vogliono vivere per e in un mondo unito, non solo in un mondo globalizzato.