Chiara Andreola, della rivista Città Nuova (edizione on-line), mi ha fatto oggi la seguente intervista sulla "mediazione" turco-brasiliana relativa al programma nucleare iraniano
Ormai al balletto diplomatico sul nucleare iraniano ci avevamo fatto il callo: dopo anni di tentativi a vuoto, scorrendo i titoli dei giornali veniva la tentazione di non fermarsi nemmeno più a leggere qualcosa sull'argomento, in attesa solo – forse – delle sanzioni Onu a Teheran. Eppure, nel silenzio di molti media – e non solo in Italia – sembrerebbe che l'impresa impossibile di giungere ad un accordo sull'arricchimento dell'uranio all'estero per usi civili – dall'energia alla medicina – sia riuscita a Brasile e Turchia. Il presidente Lula già da tempo si era espresso a favore della prosecuzione del dialogo con l'Iran, impegnandosi attivamente in questo senso. Secondo l'accordo l'Iran invierà 1200 chili di uranio arricchito al 3,5 per cento, ricevendone indietro altrettanti arricchiti al 20 per cento – ben al di sotto della soglia necessaria per le armi nucleari. Sembrerebbe quindi che siano caduti motivi alla base delle minacciate sanzioni, caldeggiate in particolar modo dagli Stati Uniti. Tuttavia i dubbi e le inquietudini rimangono ancora molti, soprattutto in attesa della notifica all'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) prevista per la prossima settimana. L'accordo costituisce comunque un significativo fattore di novità sotto molteplici punti di vista: ne parliamo con Pasquale Ferrara, capo dell'unità di analisi del ministero degli Esteri.
Certo si può capire perché la Turchia, Paese confinante con l'Iran, abbia interesse nella mediazione: il Brasile, invece, sta dall'altra parte del mondo. Che cosa ha spinto Lula ad impegnarsi nel negoziato?
«Prima di tutto occorre ricordare che sia il Brasile che la Turchia sono in questo momento membri di turno, a termine, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Inoltre, il Brasile sta ormai emergendo come potenza di carattere globale: ha un ruolo propulsivo nel G20, e vuole porsi come punto di riferimento per una nuova collocazione dell'America Latina sulla scena mondiale. Da tempo il Brasile svolge ad esempio una politica a globale nel settore dell'energia: basti pensare alla compagnia petrolifera di Stato Petrobras e alla sua crescente attività in Africa. A questo si aggiungono le perplessità della diplomazia brasiliana e latinoamericana in genere sul sistema delle sanzioni: viene spesso citato il caso di Cuba, dove anni di embargo hanno paralizzato in parte l'economia, senza alcun risultato politico rilevante. Anche la Turchia, d'altra parte, aspira ad un ruolo regionale in Medioriente. Bisogna però tener presente che questo è solo un primo annuncio. Ci sono problemi tecnici e giuridici per la Turchia a dar corso all’arricchimento del combustibile nucleare iraniano sul proprio territorio; molto probabilmente servirà comunque il supporto di altri Paesi, in particolar modo di quelli del Consiglio di sicurezza dell'Onu, e dell'Aiea. Ad ogni modo, è interessante questo sforzo da un lato di uscire dallo schema violazione/sanzione e dall’altro di far funzionare nuovi equilibri mondiali con nuovi attori. Evidentemente Brasile e Turchia cercano entrambi di evitare uno scenario nel quale dovrebbero decidere se votare o meno nuove sanzioni all’Iran nel Consiglio di sicurezza di cui fanno parte in questo momento».
Ciò che non è riuscito all'Onu, all'Aiea e a tanti altri è riuscito infatti a due Paesi emergenti. Siamo davanti ad una rivisitazione in chiave moderna dell'asse dei non allineati?
«Il contesto è molto diverso da quello degli anni Settanta: qui si tratta di due membri importanti del G20, non di outsiders rispetto a un blocco. Più che altro sono Paesi che iniziano a prendere sul serio l'idea di sovranità responsabile e a far sentire la propria voce, per arrivare a una nuova governance globale».
Gli Stati Uniti, tuttavia, appena prima dell'accordo si erano espressi con toni molto duri: il segretario di Stato Hillary Clinton si era addirittura detta certa che i negoziati sarebbero falliti. L'emergere di un nuovo modello di governance è condannato a scontrarsi con le grandi potenze, che non abdicano al loro ruolo di “baby sitter” della comunità internazionale?
«Il baby sitting si sta spostando all'interno degli organismi multilaterali, come confermato anche dalla linea dell'amministrazione Obama. Bisogna però riconoscere che il punto è molto difficile da dirimere: non si può dimenticare che l'Iran ha portato avanti a lungo un programma nucleare clandestino, pur essendo parte del Trattato di non proliferazione. Inoltre Teheran ha tergiversato a lungo sul tema rifiutando anche il pacchetto proposto dall'Unione europea, che oltre all'arricchimento dell'uranio all'estero prevedeva una serie di accordi economici e commerciali, e incoraggiava l'Iran a svolgere un ruolo regionale costruttivo. La cautela è quindi giustificata dai precedenti di violazione degli accordi internazionali, che condizionano le trattative attuali. Peraltro c’è da chiedersi onestamente se le negoziazioni siano partite su basi corrette. Infatti la richiesta originaria all’Iran, la precondizione per avviare qualunque negoziato, era di sospendere l'arricchimento. Il che, a ben vedere, ha poco senso, essendo proprio quello l'oggetto delle trattative. È ancora presto per dire se l'accordo sarà effettivamente rispettato, ma speriamo che questa volta l'Iran garantisca la chiarezza e la trasparenza necessarie».
Quindi, Paesi nuovi per uno schema nuovo?
«Più che altro Paesi con un approccio più fresco al negoziato, perché non avevano partecipato alla fase iniziale. Se la cosa andrà a buon fine, si potrà dire che tutti ne saranno usciti vincitori. In ogni caso, questo accordo segna un importante elemento di novità: è la dimostrazione che gli equilibri mondiali si stanno spostando con l'emergere di nuovi protagonisti, e che forse esistono ulteriori, ampi margini negoziali che andrebbero sempre esplorati fino in fondo prima di arrivare alla logica delle sanzioni.