Obama e la Moschea
In una divertente puntata del suo «Daily Show» sul canale «Comedy Central», il comico americano Jon Stewart ridicolizza le posizioni di quanti si oppongono alla costruzione di una Moschea (o meglio, di un «centro culturale islamico») nel cuore di Manhattan, a poca distanza da Ground Zero. Appunto, la distanza: a 5 isolati, a 10 isolati, a 15 isolati, a 20 isolati, sull’«Upper West Side» (magari nella casa di Woody Allen!) suggeriscono autorevoli commentatori. Il che e’ davvero paradossale, in una metropoli dai mille volti e dai mille culti. In questo clima quasi surreale, la presa di posizione di Obama a favore del progetto del centro islamico costituisce un forte richiamo ai fondamentali della stessa vicenda politica americana, che assegna un ruolo addirittura costitutivo alla libertà religiosa. Una scelta coraggiosa e coerente, con implicazioni che vanno ben oltre la polemica sul centro culturale islamico a Manhattan. Sul «ritorno» della religione negli affari mondiali si sono versati fiumi d’inchiostro. Le due scuole di pensiero fondamentali sostengono, rispettivamente, che abbiamo assistito all’avversarsi della profezia dello «scontro di civiltà» o che, specularmente, sono finite le illusioni della secolarizzazione della politica (interna ed internazionale) alimentate sin dall’Illuminismo. I due corollari di queste opposte interpretazioni riguardano il ruolo della religione rispetto ai conflitti ed alle tensioni sia di natura inter-statale che transnazionale o interna: gli uni ritengono che le convinzioni religiose diano spesso luogo a posizioni fondamentaliste ed intolleranti, gli altri sostengono, al contrario, che i convincimenti religiosi, se interpretati nei loro caratteri originali e senza distorsioni ideologiche, possono contribuire alla soluzione dei conflitti in atto, ed anche di quelli latenti e potenziali. Come che sia, poco si è riflettuto sulle implicazioni della cosiddetta «era post-secolare» in uno specifico settore di interesse per la politica internazionale, vale a dire le molteplici declinazioni e sfumature proprio della libertà religiosa. Si dovrebbe trattare, in linea di principio, di una materia consensuale, in quanto manifestazione, nell’ambito dello spirito, dell’universalismo dei diritti fondamentali, che rappresenta uno degli settori di maggior impegno della comunità internazionale e dei suoi organismi a vocazione universale (Nazioni Unite, Consiglio dei diritti umani). In quanto tale, la libertà religiosa dovrebbe dunque costituire un diritto assoluto, paragonabile al diritto alla vita, e non essere soggetta a condizionamenti, restrizioni, intrusioni. Fin qui tutti d’accordo. Ma nella concettualizzazione della libertà religiosa (o meglio, libertà di culto, poiché la libertà religiosa nel «foro interno» è ovviamente incomprimibile) si sono surrettiziamente infiltrate concezioni relativizzanti che poco hanno a che vedere con l’espressione di un diritto fondamentale. Si è infatti sostenuto che la libertà di culto dovrebbe essere trattata nel contesto dello stato delle relazioni internazionali, e pertanto soggetta ad alcune «gradazioni» dettate da considerazioni presuntamente identitarie, di sicurezza, persino di «reciprocità». In sostanza, il diritto di culto sarebbe condizionato e non più assoluto, e dovrebbe essere modulato sulla base del contesto culturale, sociale, nel quale esso viene esercitato. Sul punto bisogna fare chiarezza: condizionare la libertà di culto ad esempio alla reciprocità (cioè, se non è permesso costruire Chiese o Sinagoghe in Arabia Saudita, neanche da noi dovremmo consentire la costruzione di Moschee) equivale non tanto e non solo alla pratica negazione dell’assolutezza delle libertà religiosa, ma ad una contraddizione sostanziale, che pregiudica, in buona sostanza, la stessa credibilità dei diritti umani fondamentali in quanto espressione della coscienza universale. Significa rendere la religione vassalla della politica e degli interessi; significa togliere alla religione la sua struttura fondamentale, che è fatta di gratuità e di disinteresse. Una variante di tale attitudine restrittiva riguarda la protezione della libertà religiosa come proiezione della struttura politica interna di un Paese o come «politica estera» di una Chiesa o di una comunità religiosa. Si difende, in buona sostanza, la religione di appartenenza, ma rispetto alle altre religioni (le «religioni degli altri») c’è quanto meno disinteresse, se non peggio. E’ un atteggiamento che con la religione ha ben poco a che vedere, e che, essendo frutto di un calcolo, rasenta il cinismo. Una libertà religiosa condizionata e funzionale ad altri scopi non è libertà, ed è inquietante che a sostenere il contrario siano i seguaci auto-proclamati della «religione della libertà».