Il punto di svolta, nella crisi libica, è stata una risoluzione dell’ONU. Ma non quella con cui il Consiglio di sicurezza ha autorizzato l’uso della forza, la n. 1973. No, la vera novità sta nella risoluzione precedente, la n.1970. Una pietra miliare nella diplomazia multilaterale. Con essa il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite faceva quattro cose: richiamava la “responsabilità” di proteggere la propria popolazione da parte delle Autorità libiche (invece di perseguire una linea di repressione violenta); avviava il procedimento per deferire il governo libico alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità; stabiliva un embargo totale ed immediato nella fornitura di armi alla Libia; redigeva una lista di esponenti libici ai quali era vietato espatriare, come misura “punitiva” per la repressione delle manifestazioni anti-regime. Precedentemente, la Libia era stata sospesa, con voto unanime, dalla partecipazione al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Sappiamo poi come è andata a finire. Da una parte, un dittatore che non ha voluto sentire ragioni e che minacciava stragi; una “coalizione” che ha precipitato gli eventi bellici, priva inizialmente di coordinamento e persino di un accordo sugli obiettivi finali. L’eco delle bombe in Libia ha raggiunto le principali capitali europee, ed ha marcato ancora una volta l’assenza di una reale volontà politica di dar vita ad un’autentica politica estera e di difesa europea. Francia, Inghilterra, e in buona misura anche l’Italia, sono andate in ordine sparso. La Germania si era già tirata fuori, astenendosi dal voto in Consiglio di sicurezza sulla risoluzione 1973. Il vertice internazionale sulla Libia si è tenuto a…. Londra, importante capitale euro-atlantica, con credenziali mediterranee poco credibili. Insomma, in tutta questa crisi, ha parlato un’anacronistica “Europa delle Nazioni”, non quella delle istituzioni comuni di Bruxelles. L’unica organizzazione internazionale con sede a Bruxelles alla quale si è voluto dare un ruolo (più per “imbrigliare” la Francia che per autentica convinzione politica) è stata la NATO. Ma chiediamoci: ha davvero senso che l’Europa si presenti oggi nel Mediterraneo con il volto securitario e militare della NATO? Nessuno sa più che fine abbia fatto l’Unione per il Mediterraneo o il progetto di Medio Oriente e Nord Africa, e così via. Dopo decenni durante i quali l’asse della politica europea si era spostato nell’Europa centro-orientale (con il “grande allargamento” dell’Unione Europea negli anni 2000), l’Unione Europea si è trovata impreparata ad affrontare i cambiamenti strutturali avviatisi sulla sponda sud del Mediterraneo.
Finiti i rivolgimenti e le crisi in corso, con ogni probabilità il Mediterraneo è destinato a ritornare al centro della politica mondiale, speriamo con nuove classi dirigenti democratiche e responsabili. Questo Mediterraneo “rinato” troverà un’Europa pronta, finalmente, a diventare un vero interlocutore politico, economico, istituzionale, un partner adulto, o avrà di fronte un muro di sospetti, cinismo, indifferenza, paura? Dalla risposta dipende forse il futuro del Mediterraneo; certamente quello dell’Europa.
L’Europa, il Kansas e il Cappellaio Matto
“I've a feeling we're not in Kansas anymore” (“ho l’impressione che non siamo più in Kansas”) esclama perplessa Dorothy nel Mago di Oz. E’ questo forse il modo migliore per descrivere il senso di subitaneo (quanto ingiustificabile) smarrimento e persino di indignazione di gran parte delle classi dirigenti e politiche europee nel constatare l’inadeguatezza dell’Europa, nella sua attuale configurazione istituzionale, dinanzi alle crisi e trasformazioni epocali che attraversano lo spazio euro-mediterraneo. Tuttavia, questa trita retorica dell’Europa-che-non-c’è è diventata stucchevole e francamente insostenibile. Da almeno un decennio, ed in particolare dai dibattiti svoltisi già alla Convenzione Europea del 2002 (che porterà al fallito progetto di Trattato costituzionale europeo) molti Governi si sono alacremente adoperati per bloccare il processo di trasferimento (rectius, “condivisione”) di sovranità tra le capitali e Bruxelles. Le accuse contro i “burocrati non-eletti” di Bruxelles hanno riempito i discorsi ufficiali di leaders e esponenti politici di tutte le tendenze. Il mito del “superstato” ha dominato il discorso politico dell’Europa occidentale. Brandendo lo spettro di una sorta di mostruoso Leviatano continentale, i governi si sono tenute strette gran parte delle competenze in materia di immigrazione e nella politica estera e di difesa. L’avversione verso l’Europa si è troppo spesso fatta scudo di un’interpretazione capziosa e parziale del pur sacrosanto principio di sussidiarietà. Una sussidiarietà “dimezzata”, considerata solo nella sua fase “discendente” e quasi mai in quella “ascendente”. Le sgangherate e sbilanciate disquisizioni sui poteri più prossimi ai territori hanno giustificato veti, reticenze, attribuzioni all’Europa di responsabilità in realtà nazionali e dei singoli governi. Il blame game ha forse funzionato in chiave politica interna, ma le sue conseguenze sono spesso sfuggite di mano agli apprendisti stregoni del “sovranismo” nazionale e del localismo para-sovranista, come nel caso della mancata ratifica del Trattato costituzionale europeo a seguito della sua bocciatura nei referendum in Francia e Paesi Bassi. Quando poi le classi dirigenti e politiche scoprono che, proprio per tutelare i territori e realizzare politiche efficaci anche a livello locale, c’è bisogno – guarda un po’! - di una dimensione sovranazionale, ecco che improvvisamente l’Europa diviene la “patria assente”, la dimensione mancante, l’anello necessario. Si invoca però un’Europa che dovrebbe calare dall’alto, da non si sa quale empireo politico dove si forgerebbe la politica europea. Che però viene decisa nelle riunioni, molto “terrene”, delle varie formazioni del Consiglio dell’Unione, con la partecipazione di tutti i ministri dei 27, di volta in volta competenti nelle diverse materie. L’Europa viene dunque chiamata in causa – il più delle volte per denunciarne “l’assenza” e le insufficienze - nelle situazioni emergenziali, ma non risulta da nessun atto politico serio e compiuto che i Ministri abbiano mai avuto intenzione di attribuire alle istituzioni europee poteri emergenziali, con annesse competenze e risorse. Andrebbe in questi casi adattato alla dimensione europea ciò che John Kennedy nel suo discorso inaugurale disse ai cittadini americani: non chiedetevi (ex-post) cosa può fare l’Europa per voi, ma chiedetevi (ex-ante) cosa voi potete fare per l’Europa. Non si tratta di retorica europeista, ma del modo più efficace per tutelare concreti interessi nazionali e persino per realizzare intelligenti politiche territoriali. Sorpresa! I poteri, proprio per essere più “vicini al cittadino”, dovrebbero passare più spesso da Bruxelles. Anche per l’Europa, come dice il Cappellaio Matto in Alice nel paese delle meraviglie, “si può sempre averne più di niente”.
The Architects, the Oracles and the Ones
A fierce debate has taken place on the alleged “failure” of analysts, political scientists, scholars of international relations, diplomats and the intelligence community to foresee the turmoil in the Arab World. Marta Dassù on “Aspen online” added more fuel to it. To be sure, there are many kinds of “failure”: overestimation, underestimation, overconfidence, complacency, ignorance, inability to connect the dots. The post- 9/11 analyses, for instance, provide a full spectrum of different and spectacular ways to fail. What is astonishing in this debate is the fact that nobody seems to care about one fundamental issue: the problem is less the method adopted than the very nature of the reality observed. What we watch is as important as how we watch it. The failure has nothing to do with the tools adopted; it is rather about missing the point. For decades analysts have been studying traditional variables and data sets, being unaware of the new societal environment created by new media, private agencies and informal groups. If there is a failure, it is the one regarding the stubborn “realist” approach to international relations, according to which only “hard power”, the economy and geo-political factors are structural elements in the understanding of world politics. A different outlook, based on the process of identity formation, ideas and values, would have been needed to fully understand what was happening beyond the façade of “order” and “stability”. One further aspect has been neglected in this discussion: the “missing link” between theory and practice in foreign policy. The subject is not new. Entire university courses are taught on foreign policy analysis. Non-orthodox approaches have been adopted in an effort to close the gap between academics and practitioners. Recently, some scholars came to me suggesting that we analyze the events in North Africa through the conceptual lens of “fuzzy logic”. Others are resorting to fractals and chaos theory, entropy and quantum physics categories. In many cases, experts and scholars are eager to give advice to diplomats and international relations practitioners who are under terrible pressure due to precipitating events or due to the small window of opportunity they are desperately trying to catch. On the other hand, academics are frustrated with the lack of inputs coming “from the ground” that would allow them to better formulate their scenarios. Like in the famous movie trilogy The Matrix, three main characters – the Architect, the Oracle and the One – play their roles without knowing the entire plot. First, there are the Architects, who design and incessantly correct the Matrix: in our case, university and academic centers dealing with international issues operate at this level. Second, there are the Oracles: “think tanks” crafting strategies, offering hints, suggesting policies. And third, are the “Ones” (self-appointed): diplomats, international organization officials, special envoys (to almost everything and to everywhere). The Architects think they control the knowledge. The Oracles think they have a strategy. The Ones think they have a mission. But the Source can be reached only by connecting the bits.
Age of (new) tribes?
The year was 1988, when the ancient word “tribe” made its comeback in the political arena. Michel Maffesoli, a French sociologist, interpreted the new phenomena of social groupings using ancestral metaphors. However, that approach had nothing to do with anthropology and was very much in tune with the sociologic outlook of contemporary collective life. In other words, we discovered that tribes are more a post-modern pattern of social behaviour than a reminiscence of the Iron Age. I think it is extremely useful to keep that in mind when we turn to the analysis of international relations, in the light of the turmoil in the Arab world. A sort of “primordialist” prejudice led us to understand the tribal structure of some societies as a sign of historical backwardness. Wrong assumption. Tribes can live side by side with information technology and high education standards. It is rather a matter of how people connect to each other. To this regard, it would be useful to make a clear distinction between the concepts of tribe and clan: the latter being a more concrete unit, which applies to different social contexts, from the top management of multi-national corporations to the structure of power in those societies designated by John Rawls as “decent hierarchical people” (for instance, the case of some “benign autocracies” in the Gulf). Beyond the ethno-anthropological viewpoint, the “tribal paradigm” is regaining a strategic role in the globalised world; as Michael Walzer put it as early as 1992 “all over the world today men and women are reasserting their local and particularist, their ethnic, religious, and national identities.” This was the political-cultural version of the “new tribalism” in modern times. There is however a different way of looking at tribalism, which consists of considering it as an aspect of trans-national relations. This means, on the one side, that physical borders are less relevant in the eyes of “tribal” people, and, on the other side, that they can draw invisible lines inside a country or a society. Those invisible lines, politically irrelevant for most of the time, suddenly begin to bear a great relevance in crisis scenarios. Take the case of Libya, for instance. For many years under the Kaddafi regime it was almost forgotten the fact that the country includes multiple versions of “tribal” affiliation. Just to mention the most common of the relevant ones, think of the Senoussi sect in the region of Benghazi (who profess a specific variant of Islam) and of the ancient “trans-national” Berber people, present with different density in a vast region between Libya, Algeria, Morocco, Mali, Niger. Berbers usually call themselves “Imazighen”, the free people. Ironically, freedom was at the source of the Modern State. In the three principles of the French Revolution, liberty (of individuals) comes first, then goes equality (as a quality of “fair” societies) and - last but not least – fraternity (which is rather a communitarian concept). The strange joint declination of freedom, equalitarianism and strong communities ties poses a challenge to the Weberian hypothesis of the disenchantment of the world. Moreover, we should reconsider the core issues of two decades of fierce and fruitless debate between individualist-cosmopolitans and culturalist-communitarians. Perhaps this new age of tribes implies also a fresh understanding on how liberty, equality and fraternity could combine in a fragmented and yet integrated world.
Giappone, ben più di un terremoto
Nonostante la meticolosa preparazione in caso di terremoti, praticata regolarmente e con grande serietà da tutta la popolazione, il Giappone è stato messo in ginocchio da uno dei più devastanti sismi della storia, accompagnato da uno spaventoso tsunami. Ma è un Paese tenace, dignitoso, resistente. Un paese che ha già dimostrato di sapersi riprendere da immani tragedie: basti pensare alla disastrosa sconfitta nella seconda guerra mondiale e al ruolo che ancora oggi occupa sul piano economico e politico nel sistema internazionale. Il Giappone è un Paese membro del G8/G20, ed è uno dei principali donatori in termini di aiuto allo sviluppo. E’ inoltre la terza economia mondiale ed è al quarto posto per il commercio su scala globale. Proprio sul piano internazionale che si potrebbero verificare le ripercussioni più significative. Le conseguenze economiche dell’immane distruzione non solo graveranno su un Paese che ha già il debito pubblico più alto del mondo industrializzato (200% del PIL), ma, per il peso che il Giappone ancora ha sull’economia mondiale, potrebbero inibire la già debolissima ripresa globale, anche se il Giappone attualmente contribuisce poco alla crescita economica. Inoltre, sul piano finanziario, gli alti indennizzi che le compagnie di assicurazione dovranno erogare non sono cosa da poco in un panorama della finanza mondiale già traballante. Sul piano politico, la solidarietà che si è innescata a livello regionale (oltre che su scala globale) potrebbe condurre a migliori relazioni tra Giappone, Corea del Sud e Cina: tre Paesi che sono stati storicamente in notevole frizione e che proprio l’emergenza potrebbe riavvicinare. Non a caso la Cina ha voluto dare grande ufficialità alla missione di esperti in protezione civile e gestione dei disastri naturali inviata in Giappone nei giorni immediatamente successivi al sisma. Per non parlare dell’emergenza verificatasi per i danni alle centrali nucleari, che ha suscitato in tutto il mondo un vivace dibattitto sulla gestibilità di questi impianti in situazioni critiche. Il sociologo tedesco Ulrich Beck, qualche anno fa, aveva coniato l’espressione “società globale del rischio”. In pratica, viviamo un mondo nel quale i pericoli, le catastrofi, non possono più essere chiusi nei confini di un solo Paese. Sarebbe perciò il caso, pensando non solo alle centrali nucleari, ma anche al fatto che le forze della natura non rispettano certo le frontiere, di evitare di considerare le scelte che riguardano attività o situazioni rischiose come un fatto esclusivamente nazionale, di globalizzare la prevenzione e di coordinare meglio la risposta alle crisi “trans-nazionali”.
Islam politico o Islam "a-politico"?
E’ ancora troppo presto per dire se i cambiamenti strutturali in corso in diversi Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente avranno positive conseguenze anche in termini di “apertura” dei rispettivi sistemi politici. E’ in ogni caso prevedibile che un numero considerevole di formazioni ed attori politici intenda accedere alla partecipazione democratica nel contesto di sistemi elettorali competitivi. E’ ipotizzabile che molteplici partiti politici di diretta ispirazione islamica non solo partecipino ai processi elettorali, ma anche che conquistino una considerevole rappresentanza parlamentare, e, in prospettiva, assumano responsabilità di governo. A questo proposito occorre sottolineare come un “Islam politico”, vale a dire incanalato nei processi istituzionali di partecipazione e rappresentanza nel contesto delle regole costituzionali, rappresenterebbe una soluzione senza dubbio migliore di un islamismo a-politico, vale a dire privo di una cultura politica pluralista e inclusiva e possibile preda di agitatori che fomentano l’integralismo e l’intolleranza. Partiti politici di ispirazione religiosa, purché organizzati in modo democratico ed incardinati nelle istituzioni rappresentative, potrebbero dunque contribuire a disinnescare potenziali tensioni interne di matrice religiosa o in senso lato culturale (ad esempio tra “laici” e osservanti). D’altra parte, le esperienze di partiti democratici di ispirazione religiosa in democrazie competitive (basti pensare all’Italia, alla Germania, alla stessa Turchia), ormai consolidate nel tempo, sono numerose e si sono rivelate fruttuose per l’intero sistema politico.
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