L’Europa, il Kansas e il Cappellaio Matto
“I've a feeling we're not in Kansas anymore” (“ho l’impressione che non siamo più in Kansas”) esclama perplessa Dorothy nel Mago di Oz. E’ questo forse il modo migliore per descrivere il senso di subitaneo (quanto ingiustificabile) smarrimento e persino di indignazione di gran parte delle classi dirigenti e politiche europee nel constatare l’inadeguatezza dell’Europa, nella sua attuale configurazione istituzionale, dinanzi alle crisi e trasformazioni epocali che attraversano lo spazio euro-mediterraneo. Tuttavia, questa trita retorica dell’Europa-che-non-c’è è diventata stucchevole e francamente insostenibile. Da almeno un decennio, ed in particolare dai dibattiti svoltisi già alla Convenzione Europea del 2002 (che porterà al fallito progetto di Trattato costituzionale europeo) molti Governi si sono alacremente adoperati per bloccare il processo di trasferimento (rectius, “condivisione”) di sovranità tra le capitali e Bruxelles. Le accuse contro i “burocrati non-eletti” di Bruxelles hanno riempito i discorsi ufficiali di leaders e esponenti politici di tutte le tendenze. Il mito del “superstato” ha dominato il discorso politico dell’Europa occidentale. Brandendo lo spettro di una sorta di mostruoso Leviatano continentale, i governi si sono tenute strette gran parte delle competenze in materia di immigrazione e nella politica estera e di difesa. L’avversione verso l’Europa si è troppo spesso fatta scudo di un’interpretazione capziosa e parziale del pur sacrosanto principio di sussidiarietà. Una sussidiarietà “dimezzata”, considerata solo nella sua fase “discendente” e quasi mai in quella “ascendente”. Le sgangherate e sbilanciate disquisizioni sui poteri più prossimi ai territori hanno giustificato veti, reticenze, attribuzioni all’Europa di responsabilità in realtà nazionali e dei singoli governi. Il blame game ha forse funzionato in chiave politica interna, ma le sue conseguenze sono spesso sfuggite di mano agli apprendisti stregoni del “sovranismo” nazionale e del localismo para-sovranista, come nel caso della mancata ratifica del Trattato costituzionale europeo a seguito della sua bocciatura nei referendum in Francia e Paesi Bassi. Quando poi le classi dirigenti e politiche scoprono che, proprio per tutelare i territori e realizzare politiche efficaci anche a livello locale, c’è bisogno – guarda un po’! - di una dimensione sovranazionale, ecco che improvvisamente l’Europa diviene la “patria assente”, la dimensione mancante, l’anello necessario. Si invoca però un’Europa che dovrebbe calare dall’alto, da non si sa quale empireo politico dove si forgerebbe la politica europea. Che però viene decisa nelle riunioni, molto “terrene”, delle varie formazioni del Consiglio dell’Unione, con la partecipazione di tutti i ministri dei 27, di volta in volta competenti nelle diverse materie. L’Europa viene dunque chiamata in causa – il più delle volte per denunciarne “l’assenza” e le insufficienze - nelle situazioni emergenziali, ma non risulta da nessun atto politico serio e compiuto che i Ministri abbiano mai avuto intenzione di attribuire alle istituzioni europee poteri emergenziali, con annesse competenze e risorse. Andrebbe in questi casi adattato alla dimensione europea ciò che John Kennedy nel suo discorso inaugurale disse ai cittadini americani: non chiedetevi (ex-post) cosa può fare l’Europa per voi, ma chiedetevi (ex-ante) cosa voi potete fare per l’Europa. Non si tratta di retorica europeista, ma del modo più efficace per tutelare concreti interessi nazionali e persino per realizzare intelligenti politiche territoriali. Sorpresa! I poteri, proprio per essere più “vicini al cittadino”, dovrebbero passare più spesso da Bruxelles. Anche per l’Europa, come dice il Cappellaio Matto in Alice nel paese delle meraviglie, “si può sempre averne più di niente”.