Nel momento in cui una nuova
tragedia, provocata dalla furia del terrorismo cieco ed implacabile, colpisce
la “capitale dell’Europa”, è oggettivamente difficile mantenere la lucidità
necessaria per capirne la portata e per comprendere che agire, più che reagire,
è la risposta davvero strategica che dobbiamo avere la capacità di articolare.
Anzitutto, dobbiamo renderci conto che colpire Bruxelles ha un chiaro intento
politico, rivolto non tanto e non solo al Belgio, quanto all’Unione
Europea in quanto tale, come istituzione integrativa di 28 paesi europei. E’
un’intimidazione intesa a ripercuotersi, perciò, in tutti gli Stati membri, e che
persegue lo scopo di portare la guerra dell’ISIS nel cuore dell’Europa, con
l’obiettivo di allargare il fronte dei paesi coinvolti. L’unisca speranza
dell’ISIS, contrariamente a quanto si crede, consiste proprio nell’espandere le
frontiere del caos, nell’estendere la sua trincea nei gangli delle nostre
democrazie.
Sono molteplici i livelli sui
cui è necessario “agire”.
In primo luogo, come sempre dinanzi a shock
violentissimi la prima tentazione è quella di prevedere misure
straordinarie, stati di eccezione, sospensione di regole e di procedure
democratiche. Ma se c’è un paradigma che distingue le democrazie
rispetto all’oscurantismo del terrore è proprio quella di combattere volutamente
“con una mano legata dietro la schiena”, e cioè quella di non farsi
trascinare nel baratro della rinuncia alla libertà in cambio di una (illusoria)
sicurezza. L’obiettivo del terrorismo è, tra l’altro, proprio quello di
dimostrare che lo stato democratico è inefficace, è incapace di
proteggere i propri cittadini e pertanto è delegittimato, perché inetto.
Insomma, la democrazia non servirebbe in situazioni di crisi. Il punto è che
questa distorta rappresentazione della democrazia è fatta propria non solo da
populisti e demagoghi, ma anche da analisti e intellettuali più o meno
autorevoli.
Sarebbe però un
cedimento gravissimo, lo stesso che ha portato gli Stati Uniti, dopo l’11
settembre, ad adottare il “Patriot Act”, cioè una legislazione draconiana che
ha avuto non solo l’effetto di restringere le libertà fondamentali anzitutto
degli Americani, ma anche di fornire una sorta di lasciapassare per la
violazione “legalizzata” dei diritti umani. Se oggi un candidato alla
Presidenza degli Stati Uniti può pensare di chiudere le frontiere a tutti i
messicani e a tutti gli “Islamici”, se può affermare che la tortura è una
pratica ammissibile, si deve proprio a questa infezione della democrazia, a
questo inquinamento dell’opinione pubblica, che costituisce, in qualche modo,
una vittoria del terrorismo.
Tutto ciò è inutile oltre che
dannoso,
giacché le democrazie hanno tutti gli strumenti per difendersi: misure di
polizia, possibilità di controlli a vari livelli, mezzi giuridici, mezzi
politici, mezzi informativi e comunicativi. Basta usarli bene e con tutte le
loro potenzialità, senza che ci sia bisogno di giustificare l’accantonamento
della legalità con la situazione di emergenza. Gli attentati di Bruxelles, ad
esempio, non sono dovuti alla mancanza di strumenti, ma al fatto che essi non
sono stati utilizzati in modo coordinato e pro-attivo.
Il secondo rischio è quello di
credere che il pericolo per la nostra sicurezza venga dall’esterno. La minaccia, a Bruxelles
come a Parigi, è più endogena che esogena, e bisognerà pure interrogarsi sul
perché i kamikaze crescono nelle città europee, dotati di cittadinanza e di
passaporti europei. Il tema delle periferie ghettizzate o delle enclave
metropolitane è stato trascurato per troppo tempo; ciò non riguarda solo gli
aspetti, pur fondamentali, della sicurezza, ma anche e soprattutto i fenomeni
di alienazione e di “tradimento” della patria di residenza, che sanciscono il
fallimento culturale e civile delle politiche di integrazione. Certo, la
radicalizzazione è spesso il risultato di deleterie influenze esterne, e il
caso macroscopico è quello dei foreign fighters europei di
ritorno, addestrati nel sedicente stato pseudo-islamico, ma ciò non toglie che
il contesto urbano degradato e la marginalità giochino un ruolo tutt’altro che
secondario, se non altro perché non producono i necessari anticorpi contro la
deriva dell’estremismo violento.
Il terzo rischio, collegato al punto
precedente, è che la paura finisca per ampliare il “fronte del rifiuto” rispetto
alla questione dei rifugiati e dei migranti, accomunando indistintamente
migrazioni e terrorismo, e cioè confondendo gli effetti con le cause,
dimenticando che i rifugiati sono essi stessi vittime di terrorismo,
persecuzioni, guerra. I segnali che vediamo sono preoccupanti, con l’aggravante
di una strumentalizzazione politica vergognosa e disumana, che gioca con le
giuste preoccupazioni dei cittadini per ottenere consensi e conquistare scranni
elettorali.
Fermo restando che un
politico avrebbe il dovere di guidare, di spiegare, di argomentare, più che di
inseguire l’opinione prevalente, cercando anzi di cambiarla in nome della
verità (almeno quella con la lettera minuscola), verrebbe da dire che in queste
condizioni sarebbe di gran lunga più dignitoso per un politico perdere le
elezioni piuttosto che guadagnare fette di potere con un metodo strutturalmente
disonesto e manipolativo, oltre che irresponsabile e, alla lunga,
auto-distruttivo, per sé stesso, per la società, per la politica e la sua
credibilità.
Il quarto rischio è che la minaccia
terroristica dell’ISIS contribuisca a demolire quanto è ancora rimasto in piedi
dell’integrazione europea – dopo la sospensione di Schengen, il ripiegamento
sulla sicurezza nazionale, l’inquietante risposta all’emergenza dei rifugiati –,
con l’idea che le nostre piccole patrie possano realmente costituire il nostro
orizzonte di salvezza. Tutto ciò è paradossale: il terrorismo è transnazionale
per definizione, tutte le più grandi sfide che dobbiamo fronteggiare
sono globali, e dunque ci sarebbe bisogno di una dimensione realmente
europea, in termini di intelligence, di condivisione di informazioni, di
coordinamento di azioni preventive.
Invece di rafforzarci,
rischiamo così di indebolirci, e di aumentare in modo esponenziale la nostra vulnerabilità.
La domanda seria che dovremmo porci non è se crediamo o meno all’Europa quasi
fosse un articolo di fede, ma se senza l’Europa possiamo davvero pensare di
avere una qualche incidenza, anche in termini di garantire la nostra sicurezza,
in un mondo globalizzato e trans-nazionalizzato.
Il quinto rischio è che la
contrapposizione tra mondo euro-atlantico e mondo arabo, che è uno degli
intenti fondamentali dell’ISIS, diventi, almeno nella facile retorica politica,
una realtà irreversibile, con l’aggravante di una dimensione religiosa
(Cristianesismo contro Islam). È cruciale che tutte le istanze e le voci capaci
di smontare questo assioma falso e rozzo abbiano spazio e risonanza. C’è
una sorta di scisma non dichiarato nell’Islam sunnita, che è quello del sedicente
stato pseudo-islamico e di tutti i terrorismi ad esso affini, e che va ben
oltre le stesse correnti salafite e wahabbite, che sempre più tendono a
distinguersi rispetto al terrore nichilista dell’ISIS e di Al Qaeda, come pure
di Boko Haram.
I Cristiani sono perseguitati
in Siria e Iraq, ma lo sono pure gli sciiti, gli yazidi, le correnti che si rifanno alla
tradizione sufita, i sunniti che rifiutano una versione degenerata della Jihad
e l’arruolamento forzato sotto il Califfato. Qui non si tratta di scontro di
civiltà, ma di isolare e arginare l’inciviltà dello scontro.
Il sesto rischio, che molti commentatori
“muscolari” sembrano non considerare, è quello di una militarizzazione delle
politiche estere dei Paesi europei, quasi che il “male” dell’estremismo
violento e possa essere estirpato dal Medio Oriente e dal Nordafrica mettendo,
come si dice, gli “stivali sul terreno”, cioè con interventi diretti nei
conflitti. Non ci ha risparmiato questo consiglio neanche Tony Blair, che
appena pochi giorni fa si era “scusato” per l’intervento in Iraq, fonte di
quasi tutti i nostri problemi attuali. Più accorto Obama, che ha definito un
“errore” l’intervento in Libia nel 2011, condendo però l’affermazione con una
certa dose di veleno nei confronti degli “alleati (europei) scrocconi”, che
contato cioè sempre sugli Stati Uniti quando si tratta di agire militarmente.
In Libia, come in Siria ed in
Iraq, si tratta di far qualcosa di assai più incisivo e radicale rispetto ai
bombardamenti o alle invasioni, e cioè mettere in atto una strategia che isoli il
terrorismo, che punti a sostenere davvero quanti intendono ricostruire il patto
fondativo nazionale, senza il quale si rischia di appoggiare una fazione contro
l’altra, con effetti dirompenti. È quello che hanno fatto in Siria, dal 2011,
le Monarchie del Golfo, l’Iran, la Turchia, la Russia, ma anche l’Europa e gli
Stati Uniti, in ordine sparso, con una confusione ed improvvisazione tale da
avvalorare la convinzione che se tutti se ne fossero astenuti oggi la situazione
non sarebbe forse peggiore di quella che ci ritroviamo dinanzi. È quello che
hanno fatto gli Europei bombardando il regime di Gheddafi nel 2011 senza avere
la più pallida idea di cosa fare immediatamente dopo.
Insomma, il momento è
drammatico e
non possiamo scherzare con le parole, con le narrazioni, con la storia. Un
aforisma riferito alla politica italiana di qualche anno fa diceva che “la
situazione è drammatica, ma non seria”. Facciamo in modo che la politica
europea sia, invece, seria, e ricordiamoci che nel 2012 l’Unione Europea ha
ricevuto il Premio Nobel per la pace. Meritiamocelo in questa ora tragica,
ricordando al mondo che l’integrazione è non solo una grande invenzione
europea, ma anche la prefigurazione di rapporti internazionali da
rifondare. Abbiamo avuto la dimostrazione, dopo i suicidi delle due guerre
mondiali del XX secolo, che accontentarci di una precaria “pace fredda” o di
una “pace a bassa intensità” in Europa, come altrove, non serve a prevenire i
conflitti, e che la pace richiede il massimo di impegno e di rischio. Ci vuole
molto più coraggio e molta più strategia a vincere la pace di quanto ce ne
vogliano in qualunque guerra.