L'Atlantico in lungo e in largo
Il gergo diplomatico pullula di luoghi comuni e di espressioni logore. Una di queste è senza dubbio «relazioni trans-atlantiche». Non posso farci nulla, ogni volta che la sento penso al vero «transatlantico» (la nave), al Titanic che incoccia un iceberg o al Rex che appare nella nebbia in Amarcord di Fellini. In realtà le relazioni transatlantiche sono una cosa serissima, e definiscono le fasi alterne del rapporto complesso, ma strategico, tra Europa e Stati Uniti. Le relazioni transatlantiche sono un «mantra» della politica estera non solo italiana, ma dell’intero continente. Il guaio è che troppo spesso sono date per scontate, ma ciò è stato vero fino al termine della Guerra Fredda, di cui abbiamo festeggiato lo scorso anno il ventennio dalla liquidazione. Da quel momento, una preoccupazione centrale (non la sola, ovviamente) ha caratterizzato l’approccio europeo agli Stati Uniti: evitare il cosiddetto «decoupling», cioè impedire che le sorti europee ed americane si divaricassero, specie nel campo della sicurezza. Non è solo la questione della NATO e della sua trasformazione (quest’anno ne sarà rivisto il «concetto strategico», cioè la sua ragion d’essere «attualizzata», in un mondo profondamento mutato) ma anche dell’orientamento generale degli Stati Uniti, se cioè l’Europa (e l’Unione Europea in particolare) continui a rappresentare per Washington un punto di riferimento imprescindibile per una partnership strategica e a lungo termine. Per questo, non poco allarme ha suscitato nelle Cancellerie europee la dichiarazione resa da Hillary Clinton dinanzi alla Commissione Esteri del Senato degli Stati Uniti in occasione della conferma della sua nomina a Segretario di Stato. Gli Stati Uniti – ha detto la Clinton – non sono solo una potenza trans-atlantica, ma anche trans-pacifica. Come dire: l’Asia ha per l’America di Omaba una rilevanza strategica pari a quella che riveste l’Europa. La crisi economica e finanziaria globale non ha certo dato una mano: ben oltre il G20, ha preso piede la psicosi del G2, cioè una sorta di duopolio sino-americano nel governo (finanziario) mondiale.Ma tutti i principali esponenti dell’Amministrazione americana negano che vi sia un disinteresse crescente degli Stati Uniti verso l’Europa. Obama in realtà non ha assunto nei confronti del vecchi continente l’atteggiamento che alcuni commentatori attribuiscono agli Stati Uniti, e cioè «chiamateci quando siete pronti». Non bisogna dimenticare che l’interconnessione economica tra USA e UE abbraccia 800 milioni di cittadini/consumatori, ed in quanto tale è altamente competitiva, anche sotto il profilo delle dimensioni del mercato, nei confronti di realtà come Cina e India. Questo «contenitore» ha tuttavia necessità di ricevere nuovi contenuti. Mi sembra di notevole interesse – anche se piuttosto problematica - la proposta, avanzata in un rapporto della School for Advanced International Studies della Johns Hopkins University di Washington, di cominciare a pensare non più in termini di trans-atlantismo «settentrionale», ma di «bacino Atlantico», includendo quindi anche le potenzialità dell’Africa e un rinnovato rapporto con l’America Latina. Si tratterebbe di una relazione «quadrangolare» e non più «bilaterale» tra le due sponde dell’Atlantico, e abbraccerebbe sia l’emisfero boreale che quello australe. Sarebbero unite in uno stesso «bacino» problematiche diverse ma in realtà strettamente legate tra loro, quali la nuova governance economica e i «legal standards», il cambiamento climatico, lo sviluppo e la sicurezza alimentare, la lotta alla multinazionali del crimine, le operazioni di paece-keeping e di stabilizzazione, le questioni energetiche. Il bacino atlantico sarebbe, in altri termini, una sorta di laboratorio delle questioni globali. L’Altantico non si allargherebbe, si «allungherebbe». In un altro documento redatto dall’«European Council on Foreign Relations», Jeremy Shapiro e Nick Witney presentano, un po’ provocatoriamente, le loro raccomandazioni per un’Europa «post-americana». Se con il processo di integrazione l’Europa ha potuto concedersi, per così dire, una sorta di «vacanza dalla storia», con i cambiamenti strutturali in corso negli assetti del potere mondiale, questa «vacanza» è finita. In particolare, l’Europa deve mutare in modo più responsabile e pro-attivo il suo modo di stare nel mondo, a partire dal suo consolidato rapporto con gli Stati Uniti, che attualmente oscilla tra l’«infantilismo» e il «feticismo». Un mero «assemblaggio» di Stati europei sarebbe progressivamente marginalizzato a favore di nuovi partners con obiettivi più chiari e un corso di azione più continuo e coerente. Un’Europa co-protagonista, con pari dignità e responsabilità, dell’ordine e dello sviluppo mondiale, dovrebbe improntare la sua politica unitaria nei riguardi degli Stati Uniti ad alcuni principi fondamentali: essere assertiva, non tentare di «ingraziarsi» gli USA («assertion, not ingratiation»); essere disposta al compromesso, non insistere nel cercare di convincere gli Stati Uniti della bontà delle proprie ragioni («compromising, not convincing»); agire in modo coordinato, non come un insieme di protagonismi nazionali («in chorus, not solo»).