di Pasquale Ferrara
1. Non sappiamo ancora se la recente entrata in vigore del Trattato di Lisbona rappresenterà, per l’Europa, l’ultima delle riforme - faticosamente portata a termine tra mille ostacoli ed «incidenti» politici, dopo il naufragio del Trattato costituzionale, che non ha superato l’esame degli elettorati francese ed olandese, ed una prima bocciatura referendaria in Irlanda – o l’avvio di una fase nuova, nella quale l’«Unione» saprà davvero presentarsi sulla scena mondiale in modo meno frammentario, più coerente e coeso. Né sappiamo se Lisbona costituisca, come alcuni analisti ritengono, la fine del processo di integrazione inteso in modo classico (in termini di «cessioni di sovranità» in ambiti settoriali all’«apparato» di Bruxelles) come sostiene l’esperto Andrew Moravcsik (secondo il quale l’Unione Europea avrebbe ormai raggiunto il suo stato finale di maturazione, paragonabile al compromesso costituzionale americano del 1789) , o l’inizio di una sorta di ri-nazionalizzazione dell’Europa, che rappresenterebbe l’analogo «regionale» della tendenza alla «sglobalizzazione» dei contesti economici anche sotto la spinta di nuove domande identitarie. Questa seconda ipotesi è stata battezzata «federalismo competitivo» nella sua versione «costruttiva», ma mostra anche un lato oscuro, che affonda le sue radici addirittura nella tradizionale «balance of power» o equilibrio delle potenze, e che nella sua accezione contemporanea comporta l’illusione «neo-sovranista» dei gruppi ristretti (i famigerati «direttorî», giustificati con l’esigenza di evitare i pastosi meccanismi decisionali dell’Unione a 27 Stati membri).
Una questione tuttavia sembra stagliarsi con grande chiarezza, e cioè che l’Europa si gioca il suo futuro sulla capacità di assumere con maturità un ruolo propositivo e attivo sullo scenario mondiale, in un mondo in cui sono in atto radicali modificazioni non solo nella struttura del potere, ma anche nella rappresentazione simbolica degli assetti globali, a cominciare dalle rivendicazioni identitarie che mettono in discussione persino i parametri attraverso i quali si valuta il tasso di stabilità internazionale o quello di sviluppo su scala planetaria.
Se l’Europa ha potuto costruire la sua struttura attuale attraverso un tortuoso ma anche fruttuoso processo di ri-costituzione interna e di ri-configurazione in senso lato economica e sociale (attraverso il Mercato Unico, l’Euro, Schengen, l’armonizzazione regolamentare, la «generazione Erasmus»), essa non solo non potrà continuare ad avanzare nella direzione integrativa, ma potrebbe persino conoscere tensioni disgregative se non rivolgerà le sue sollecitudini alla ri-strutturatione politica già in atto degli assetti mondiali, specie nell’accezione di una maggiore «sicurezza democratica» e condivisa, oggi assente in ampie aree del pianeta.
In questo senso, è rivolto anche all’Unione Europea l’imperativo della «sovranità responsabile» che essa spesso indirizza alle cosiddette «potenze emergenti» (come Cina e India, e includendo anche la Russia). Una sovranità responsabile sia nell’Unione - degli Stati membri verso l’Unione, che dovrebbero una volta per tutte rinunciare a giocare il «blame game», cioè ad addossare ipocritamente tutte le responsabilità delle disfunzioni politiche a «Bruxelles», quasi essi, come apparati di governo, fossero estranei alla formazione delle decisioni e della legislazione dell’Unione; sia una sovranità responsabile dell’Unione, e cioè la disponibilità ad assumere un ruolo-guida, in termini risolutivi, nelle questioni più spinose della politica internazionale, a cominciare dal problema del cambiamento climatico (con le connesse ripercussioni economiche e di sicurezza) a quello del disarmo nucleare e della messa in opera di nuove strategie di sviluppo sostenibile.
Se le nuove figure istituzionali previste dal Trattato di Lisbona, vale a dire l’«Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza» (che si avvarrà di un «servizio europeo per l'azione esterna», operante in collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri e composto da funzionari del segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali) e il «Presidente del Consiglio Europeo» saranno in grado di dare un reale, visibile e concreto impulso all’azione comune europea sulla scena mondiale, non è del tutto chiaro né scontato. Formalmente, il Trattato assegna al Presidente del Consiglio europeo «al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza» . Creato l’organo (o gli organi), è infatti necessario creare la funzione, perché in questo delicato ambito della sovranità statale tale sviluppo non è affatto automatico e si scontra in realtà con fortissime resistenze sovraniste e velleità di un improbabile protagonismo su basi nazionali.
2. La «questione europea» non può oggi essere affrontata senza tener conto della traslazione di potere in corso al livello globale e della nuova centralità economica di aree (rapidamente ed impetuosamente) emergenti. Il Vertice di Pittsburgh (24-25 settembre 2009) ha rappresentato un punto di svolta per la riforma dell’«architettura globale», cioè delle formazioni ed istituzioni chiamate, in questo turbolento trascorrere della prima decade del XXI secolo, a rendere più inclusiva ed effettiva la «governance» mondiale. La «foto di famiglia» del vertice di Pittsburgh è la rappresentazione plastica di un mondo in rapido mutamento. A Pittsburgh il G20 («Gruppo dei 20») è stato designato, in pratica, come il nuovo «consiglio economico» globale in luogo del G8. Non solo: è stato assunto da una parte l’impegno a favorire, nel Fondo Monetario Internazionale, il riequilibrio nella divisione delle quote ai «mercati dinamici emergenti» ed ai «paesi in via di sviluppo», spostando almeno il 5% di esse (con la connessa diversa ponderazione dei voti) dai paesi sovra-rappresentati a quelli sotto-rappresentati; dall’altra, a incrementare, nella Banca Mondiale, almeno del 3% il potere di voto per colmare un gap di sotto-rappresentazione dei paesi in via di sviluppo o in transizione. Tuttavia questo spostamento degli assetti nella Banca Mondiale dovrebbe avvenire a spese dei Paesi sovra-rappresentati, preservando in tal modo intatta la rappresentanza dei paesi più piccoli e poveri.
Tralasciando tali complesse questioni istituzionali, il dato politico fondamentale è che da Pittsburgh è venuto un chiaro impulso verso l’istituzionalizzazione del G20 come principale foro della governance informale economico-finanziaria.
Il G20 raggruppa infatti un numero elevato di Paesi e istituzioni, che rappresentano circa il 90% del PIL mondiale, l’80% del commercio internazionale e i due terzi della popolazione del pianeta. Essi appartengono a diverse aree del mondo e hanno livelli di sviluppo eterogenei.
L’affermarsi del G20 pone all’Europa una sfida radicale. Sul piano geopolitico, a fronte dell’avanzata dei Paesi emergenti sanzionata dalla nuova centralità del G20 si registra, in parallelo, un’oggettiva ed in gran parte inevitabile «retrocessione» dei Paesi europei. Si tratta di un fenomeno in gran parte strutturale e come tale difficilmente reversibile. In questo contesto, dovremmo rompere l’illusione che i Paesi europei uti singuli possano in futuro continuare a mantenere una capacità di influenza e decisione paragonabile a quella sperimentata negli ultimi cinquant’anni. Solo unendo gli sforzi e «parlando con una sola voce» l’Europa potrà rimanere a medio termine una delle potenze trainanti e determinanti della politica internazionale. Ad esempio, per la governance economica finanziaria del G7, un’ipotesi circolata di recente contempla una rappresentanza unica dell’Europa attraverso la Presidenza dell’Eurogruppo, cioè del raggruppamento dei Paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’Euro. Il nuovo Trattato di Lisbona prevede in effetti che l’Unione Europea, che acquisisce in quanto tale personalità giuridica, possa adottare «le misure opportune per garantire una rappresentanza unificata nell’ambito delle istituzioni e conferenze finanziarie internazionali». Il dubbio è che in questa fase della vicenda europea manchi la necessaria volontà politica di mettere realmente a fattore comune le risorse e le capacità europee sullo scenario mondiale. Una strada percorribile, ad esempio, potrebbe essere quella dell’unificazione delle quote di voto detenute da Paesi membri dell’Unione Europea presso il Fondo Monetario Internazionale.
L’«Institut Montaigne» ha osservato come nella crisi attuale l’Europa rischi di divenire «l’uomo malato del pianeta», sia per l’impatto che la situazione economica ha sui livelli di occupazione e di produzione in Europa, sia perché la scarsa assertività dell’Europa rischia di tagliarla fuori dai grandi processi decisionali, specie di natura monetaria, sempre più concentrati nel binomio Cina-Stati Uniti (la cosiddetta «Cinamerica»). Al fine di ritornare ad «esistere» accanto ad altri «Stati-continenti», l’Unione Europea deve cessare di essere un «nano politico, economico e diplomatico». Tuttavia, se la diagnosi ha una certa credibilità (benché improntata ad un eccessivo pessimismo), la prescrizione è invece del tutto inadeguata: suggerisce la condivisione tra Francia e Germania del seggio permanente in Consiglio di Sicurezza. Per quanto l’idea abbia una qualche rilevanza per l’eventuale futura trasformazione del seggio «condiviso» franco-tedesco in un ipotetico e forse, nelle condizioni attuali, tecnicamente impraticabile «seggio europeo» (non previsto dalla Carta delle Nazioni Unite in quanto espressione di un raggruppamento regionale, ed in ogni caso non aggiuntivo ai seggi europei già presenti in Consiglio, due permanenti e due non-permanenti), il problema reale riguarda piuttosto, «qui ed ora», la rappresentanza dell’Europa nel G20. Il rapporto dell’«Institut Montaigne» affronta questo tema alquanto superficialmente, e cioè in termini di una mancanza di leadership della Commissione Europea o come una crescente difficoltà di coagulare posizioni unitarie dopo la «diluizione» dell’Unione e il conseguente affievolirsi della sua forza integrativa a seguito di allargamenti che avrebbero in pratica paralizzato l’UE sotto il profilo decisionale sulle questioni strategiche più complesse.
In un sagace commento al Vertice di Pittsburgh , si è ironizzato sull’«assalto al potere mondiale» che l’Unione Europea starebbe complottando approfittando della riconfigurazione della governance globale. Si dà conto della prospettiva del «G3» - in luogo dello «spauracchio» del «G2» tra Stati Uniti e Cina - che comprenda l’Unione Europea. Il G3 in parola sarebbe in realtà un G3 monetario, più plausibile, allo stato attuale dell’integrazione europea, di un G3 economico ; diversi Paesi (come l’Inghilterra) tuttavia sarebbero esclusi se il riferimento fosse l’Eurogruppo, cioè i Paesi dell’Unione che hanno adottato l’Euro. E’ indubbio che l’Europa è oggi nettamente sovra-rappresentata al tavolo dei lavori del G20: accanto a «giganti» come Brasile, India, Cina e Stati Uniti, rappresentati da un unico esponente, gli Europei sono riusciti ad assicurarsi ben otto posti, e cioè Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia (membri «ufficiali»), ma anche Spagna, Olanda, il Presidente della Commissione Europea e il Presidente del Consiglio dell’Unione Europea (con il nuovo Trattato di Lisbona bisognerà forse aggiungere un’ulteriore «sedia» per il Presidente del Consiglio Europeo!) E’ evidentemente una situazione insostenibile nel lungo periodo. Il problema della relativa perdita di influenza dell’Europa non è certo il G20, che rispecchia in definitiva un cambiamento sistemico nelle posizioni relative degli attori-guida sulla scena internazionale; è piuttosto l’incapacità di esprimere una credibile rappresentanza unitaria all’interno dei nuovi consessi della governance, di concretizzare una voice opportunity collettiva.
In un interessante volume pubblicato recentemente, Parag Khanna , direttore del programma di global governance alla New America Foundation, sostiene che sulla scena internazionale siano ormai apparsi tre «imperi», ovviamente non nel significato tradizionale della parola. Il primo impero è quello americano, e il modo con il quale opera è quello della coalizione; il secondo impero è quello cinese, che tende ad espandersi attraverso la consultazione; il terzo impero è l’Unione Europea, che si afferma nel mondo sulla base del consenso. Questi tre imperi sono in competizione tra loro, agendo contemporaneamente sulle due forze della globalizzazione, da un lato, e della geopolitica dall’altro. Globalizzazione, cioè espansione senza un focus territoriale, e geopolitica, cioè espansione ed influenza su base territoriale, non sono più concetti antitetici nel XXI secolo, ed anzi si rafforzano a vicenda. Sulla base di questa analisi, Khanna ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero perseguire la creazione di un G3 con l’Europa e la Cina. Il G3 sarebbe – nella valutazione di Khanna – anche uno strumento con cui affrontare le sfide globali, cioè stabilizzare il prezzo del petrolio, ridurre le emissioni di gas serra senza rallentare la crescita, combattere la povertà, intervenire in modo costruttivo negli Stati in difficoltà.
3. La verità è che se con il processo di integrazione l’Europa ha potuto concedersi - secondo alcune analisi forse troppo sbrigative - una sorta di «vacanza dalla storia» (basti pensare, infatti, ai conflitti nella ex-Jugoslavia e a quelli «congelati» o roventi nel Caucaso), con i cambiamenti strutturali in corso negli assetti del potere mondiale, questa ipotetica «vacanza» è finita. L’Europa è cresciuta troppo, e gli equilibri stanno mutando troppo rapidamente, per poter eludere la domanda fondamentale, che riguarda il ruolo dell’Europa nel mondo. In particolare, come è stato messo in luce in un documento dell’European Council on Foreign Relations , l’Europa deve mutare in modo più responsabile e pro-attivo il suo modo di stare nel mondo, a partire dal suo consolidato rapporto con gli Stati Uniti, che attualmente oscilla tra l’infantilismo e il feticismo. Un mero «assemblaggio» di Stati europei sarebbe progressivamente marginalizzato a favore di nuovi partners con obiettivi più chiari e un corso di azione più continuo e coerente.
Gli Stati europei in quanto singoli membri dell’Unione hanno progressivamente acquisito, nei riguardi degli Stati Uniti, un’identità multipla e variabile. In primo luogo, rilevano le relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, che si configurano in modo articolato a seconda dei Paesi ed in ragione di fattori storici, economici, culturali. In secondo luogo, i rapporti con gli Stati Uniti vengono letti prevalentemente attraverso la «lente» delle politiche di difesa, e ciò implica un ruolo centrale per l’Alleanza Atlantica e la NATO. Ma è progressivamente andata consolidandosi una terza modalità nelle «relazioni transatlantiche»: quella che si può riassumere con l’idea del «ponte» tra la visione europeista e quella atlantista del processo europeo, quasi si trattasse di due opposte polarità di sviluppo politico. A tale presunta contrapposizione se ne aggiunge poi un’altra, che identifica nella presunta alternatività tra Mediterraneo ed Atlantico una cesura storica ed ideologica; se tale circostanza ha avuto una qualche plausibilità, essa sarebbe semmai da rintracciare nelle vicende secolari che hanno fatto seguito alla «scoperta» dell’America, non certo nella nuova centralità globale del Mediterraneo, che tuttavia, a sua volta, ha poco a che vedere con le arbitrarie semplificazioni del ben più complesso tema del «pensiero meridiano» - intuizione, peraltro, di grande acume e fondatezza culturale ed antropologica.
Un’Europa «post-americana», secondo l’European Council on Foreign Relations, dovrebbe improntare la sua politica unitaria nei riguardi degli Stati Uniti ad alcuni principi fondamentali: essere assertiva, non tentare di «ingraziarsi» gli USA - per giunta in ordine sparso - («assertion, not ingratiation»); essere disposta al compromesso, non insistere nel cercare di convincere gli Stati Uniti della bontà delle proprie ragioni («compromising, not convincing»); agire in coro, non come un insieme di solisti («in chorus, not solo»).
In generale, l’Europa dovrebbe «guarire» dalle sue «malattie infantili «nei riguardi del grande «dirimpettaio» atlantico, che le impediscono di svolgere il ruolo più marcato che pure potenzialmente potrebbe assumere per la pace e lo sviluppo su scala globale.
La verità è che le relazioni tra Europa e Stati Uniti sono un «contenitore» nel quale occorre riversare nuovi contenuti. In un rapporto della School for Advanced International Studies della Johns Hopkins University di Washington, si propone di cominciare a pensare a tale relazione non più in termini di trans-atlantismo «settentrionale», ma di «bacino Atlantico», includendo quindi anche le potenzialità dell’Africa e un rinnovato rapporto con l’America Latina. Si tratterebbe di una relazione «quadrangolare» e non più «bilaterale» tra le due sponde dell’Atlantico, e abbraccerebbe sia l’emisfero boreale che quello australe. Sarebbero unite in uno stesso «bacino» problematiche diverse ma in realtà strettamente legate tra loro, quali la nuova governance economica e i «legal standards», il cambiamento climatico, lo sviluppo e la sicurezza alimentare, la lotta alle multinazionali del crimine, le operazioni di paece-keeping e di stabilizzazione, le questioni energetiche. Il bacino atlantico sarebbe, in altri termini, una sorta di laboratorio delle questioni globali. L’Altantico non si allargherebbe, si «allungherebbe».
Il nucleo tematico di questo dibattito non può tuttavia essere ridotto a quello della «dimensione infra-atlantica», sebbene il suo ampliamento a due altri continenti costituirebbe già un notevole cambiamento di prospettiva. E nemmeno può essere stretto tra i due rischi opposti di un’«Eurasia» (cioè di un’Europa strettamente agganciata – forse troppo - alla Russia) e un «Trans-pacifico» (cioè di un’America che si dedicasse a coltivare prevalentemente i rapporti con i Paesi asiatici, la Cina in testa).
Si tratta piuttosto di riflettere in che modo l’Europa possa contribuire in modo non-egemonico o ipoteticamente «esemplare» alla riconfigurazione dei rapporti tra grandi Paesi e grandi aggregazioni su scala regionale. E, in connessione con tale tematica, quali siano gli strumenti più adeguati all’Europa per conseguire tale finalità. Più che di un’Europa post-americana, avremmo bisogno di rafforzare un’Europa «post-occidentalista» (pur rimanendo essa solidamente ancorata ad un’identità occidentale in seno lato e «politico»), cioè di un’Europa non euro-centrica - ma nemmeno subalterna o remissiva rispetto ad altri aggregati regionali o attori preminenti - i cui segni già si scorgono in molteplici iniziative politiche e strategie. Da questo punto di vista, appare utile il concetto di «interpolarità» piuttosto che quello di «multipolarità». In un sistema internazionale interpolare i principali attori internazionali cooperano attivamente al fine di rendere la crescente interdipendenza un processo governato e costruire in tal mondo un nuovo ordine mondiale effettivamente multilaterale.
4. L’Europa come progetto politico si colloca all’interno di un dibattito plurisecolare sul rapporto tra forza e istituzioni, tra potenza smodata e potere regolato, tra strutture di comando e espressioni dell’autorità. Essa, in quanto Unione Europea, ha fatto oggetto di critiche assai superficiali incentrate sulla sua asserita debolezza «stratologica» (cioè militare), subendo caratterizzazioni caricaturali come quella di Robert Kagan, che le attribuisce il volto di «Venere», contrapposto a quello di «Marte», assunto dagli Stati Uniti. A parte la circostanza storica che il carattere pacifico dell’Europa data solo da alcuni decenni a fronte di una storia millenaria di conflitti distruttivi e spesso «totali», si dimentica che il volto «bellico» degli Stati Uniti non è affatto scollegato da finalità in senso lato «idealistiche» - per quanto perseguite con metodi discutibili – nella tradizione del «wilsonismo» e dell’istituzionalismo liberale. In ogni caso, la complessità della situazione internazionale dovrebbe far rifuggire gli analisti da simili dozzinali scorciatoie; se si dovesse utilizzare la metafora mitologica, allora quello presente non sarebbe né il tempo di Marte né quello di Venere, ma il «tempo di Minerva», cioè della saggezza, della prudenza, della ponderazione.
La necessità di adeguare i concetti tradizionali della politica internazionale ai nuovi scenari globali ha comunque condotto molti analisti alla ricerca di piste di riflessione che, senza essere rivoluzionarie, quanto meno rappresentano il tentativo di un reframing del dibattito internazionalistico. A tale obiettivo corrisponde l’espressione «smart power» che, forgiata in ambienti americani, non ha mancato di provocare commenti, sviluppi e precisazioni da parte di analisti di diverse aree ed estrazioni culturali. La premessa per un’analisi spassionata di questo nuovo indirizzo politico impresso alla proiezione americana nel mondo globale è costituita dalla necessità di non enfatizzare oltre misura i risvolti idealistici del concetto di smart power, che in realtà si propone di dare una configurazione più realistica e strutturata al concetto (abusato) di soft power. L’articolazione dell’idea di smart power si fonda infatti sull’obiettivo della riaffermazione, con una serie di strumenti differenziati e complementari, della preminenza degli Stati Uniti sulla scena internazionale e del mantenimento di tale condizione per il più lungo periodo possibile. Per quanto «smart», si tratta pur sempre di «power»; è un metodo per la ricerca di soluzioni pacifiche, non necessariamente un’opzione pacifista. Suzanne Nossel , la studiosa che ha coniato l’espressione nel 2004, afferma con chiarezza che il concetto nasce a seguito del convincimento che il soft power non può essere utilizzato in modo esclusivo in un’era di gravi minacce alla sicurezza. Lo smart power, per la Nossel, consente di fondere la supremazia militare ed economica americana con l’attrattività culturale ed ideologica degli Stati Uniti in una più ampia ed articolata tipologia di potere, in grado di rafforzare entrambe le componenti. Lo smart power non fa venir meno, pertanto, il presupposto di un’egemonia americana, per quanto «benigna», da esercitare attivamente nello scenario internazionale. Non a caso lo stesso «inventore» del concetto di soft power, Joseph Nye, cita espressamente la nozione gramsciana di egemonia. Il potere egemonico è qualcosa di più della semplice persuasione: esso si fonda sull'idea della legittimità e della necessità del ruolo degli Stati Uniti come fattore fondamentale dell’ordine mondiale. Per Nye «è un errore sminuire l’importanza del soft power come mera questione di immagine, pubbliche relazioni e popolarità effimera» poiché «si tratta di una forma di potere: un mezzo per raggiungere i propri intenti». Nell’ottica del soft power le relazioni internazionali non sono tuttavia concepite in maniera verticistica o piramidale, ma come una sorta di «sistema solare», vale a dire come un insieme di cerchi concentrici che promanano da un centro (gli Stati Uniti) capace di attrarre nella propria orbita un numero sempre crescente di Stati. Si tratta di riaffermare la «inspirational leadership» dell’America.
Un’idea simile a quella di smart power, ma più centrata sul tema della sicurezza nazionale, è stata sviluppata presso il Center for American Progress. Si tratta del concetto di «integrated power»: secondo questa prospettiva, solo con il ricorso integrato, vale a dire coerente e complementare, alle diverse fonti del potere degli Stati Uniti nel mondo (sul piano militare, economico, politico, diplomatico) il Paese sarà messo nelle condizioni migliori per affrontare minacce, prevenire conflitti, e riconquistare una leadership morale. L’approccio basato sull’integrated power identifica tre forze (negative) di «frammentazione» (reti del terrorismo globale, regimi estremisti, stati deboli o sulla strada del «fallimento») e quattro forze (positive) di «integrazione» (globalizzazione, democratizzazione, l’emergere di nuove potenze come Cina e India, progressi in campo tecnologico). Questo scenario consente di identificare tre principi-guida della politica estera americana: in primo luogo, proteggere il popolo americano dalle minacce esterne; in secondo luogo, prevenire i conflitti, preferendo il metodo diplomatico dell’engagement; infine, porsi alla guida di alleanze «vitali» e di istituzioni internazionali «modernizzate». Con il cambio di Amministrazione negli Stati Uniti il concetto di smart power, teorizzato, come si è visto, negli ultimi anni da diversi studiosi americani ed approfondito in modo particolare nel 2006 da una Commissione del Center for Strategic International Studies (CSIS ) guidata da Joseph Nye e Richard Armitage, è ormai ufficialmente entrato nel linguaggio della politica internazionale. L’attuale Segretario di Stato, Hillary R. Clinton, lo ha infatti apertamente utilizzato fin dalla sua confirmation hearing alla Commissione Esteri del Senato, il 13 gennaio 2009, quando ne sottolineò il ruolo chiave al fine di rafforzare la leadership americana nel mondo.
5. Rispetto a questi esercizi «ergocentrici», basati cioè in ogni caso su un concetto di relazione «asimmetrica», l’Europa ha mostrato di possedere, per averlo «inventato», un nuovo tipo di «potere», indiretto, che non può essere misurato in termini di bilanci militari o di tecnologia missilistica di punta. E’ un potere – meglio sarebbe usare il termine di influenza – che opera nel lungo periodo, e mira ad un obiettivo tutt’altro che minimalista, e cioè ad indurre una trasformazione «endogena» dei contesti politici nazionali. Il potere europeo è un potere «trasformativo», che si muove attraverso le linee strategiche del dialogo strutturato e dell’impegno reciproco .
Secondo alcuni analisti, oggi questo schema fondato sulla forza di attrazione sembra non funzionare più. L’espansione dell’«impero volontario» dell’Europa sembra aver subito una battuta d’arresto. Ciò si deve in buona parte anche alla circostanza che la Russia ha intrapreso un cammino diverso da quello dimesso e esitante che ha fatto seguito alla fine della Guerra Fredda, per tentare di recuperare un ruolo geo-politico più marcato ed assertivo. E’così accaduto che l’Europa, nella valutazione di Robert Kagan, «si è ritrovata in una posizione di competizione geopolitica del tutto inaspettata ed indesiderata. Questa grande entità del XXI secolo si è invischiata, in forza del suo stesso allargamento, in un classico confronto da XIX secolo. (...) I suoi strumenti postmoderni di politica estera non sono progettati per rispondere ad una sfida geopolitica di tipo più tradizionale».
Si tratta di una prospettiva fondata su un sostanziale scetticismo riguardo agli strumenti e metodi innovativi della politica internazionale, tutta giocata sulla tematica della «politica di potenza», che l’Europa ha in sostanza ripudiato dopo aver sperimentato ben due guerre al contempo «civili» (perché fratricide) e «globali» (non solo in senso geo-politico, ma anche in termini di assenza di limitazioni nell’uso delle armi di distruzione di massa e delle strategie impiegate). L’Europa corrisponde, nelle percezione di buona parte dell’opinione pubblica mondiale, all’immagine suggestiva della «potenza erbivora», cioè una potenza non percepita come tale in termini militari, dalla quale tuttavia ci si attende (esattamente per tale ragione) un ruolo pro-attivo sulla scena mondiale.
Inoltre il ruolo europeo nel mondo è spesso sottostimato proprio perché si tende a valutare il tasso di incidenza di un attore internazionale essenzialmente sulla base delle sue capacità militari. L’Europa è una «potenza modesta» (nel senso della qualità del «carattere», non nel significato quantitativo), una «forza gentile» che ha conseguito alcuni risultati eclatanti. Due decenni dopo la caduta del muro di Berlino, il continente è più unito, prospero e sicuro che in ogni altro momento della sua storia millenaria. Inoltre proprio la crisi finanziaria, che ha indubbiamente avuto un forte impatto anche sul «modello europeo» di sviluppo, basato sull’«economia sociale di mercato», ha mostrato come il capitalismo soft del vecchio continente, con le sue reti di sicurezza ed i suoi ammortizzatori sociali, tanto vilipeso in passato dai fautori del liberismo più sfrenato, sia una possibile risposta da un lato all’esigenza di una globalizzazione più solidale e politicamente governata, dall’altro alla necessità di «quadrare il cerchio», come sosteneva Ralf Dahrendorf, tra benessere economico, coesione sociale e libertà politica. In questo senso, è l’Unione Europea in quanto tale ad essere divenuta un «global standard», e cioè un sistema di riferimento in termini di condivisione della sovranità, ricerca ostinata del consenso, risoluzione dei conflitti di opposti interessi attraverso il sistema delle interminabili (e assai noiose) riunioni di commissioni tecniche.
Inoltre, sul piano delle politiche di stabilizzazione delle aree di crisi, si dimentica che l’Unione Europea impiega attualmente ben 71.000 unità in missioni di mantenimento e di «costruzione» della pace in varie regioni del mondo, ed in particolare nei Balcani, in Medio Oriente, nel Caucaso, in Africa (in Paesi come la Bosnia, il Congo, la Georgia, il Ciad; in Somalia con unità navali per contrastare la moderna pirateria). Secondo uno studio di un centro di ricerca specializzato in questioni militari, come la RAND Corporation, le missioni di peace-keeping a guida europea fanno registrare un «tasso di successo» superiore del 33% rispetto a quelle guidate dagli Stati Uniti.
L’Europa dovrà tuttavia risolvere i nodi della «legittimazione interna», che segnalano un declinante trend nel consenso popolare verso le istituzioni sopranazionali dell’Unione. A questo riguardo, mi sembra interessante la pista di riflessione proposta dall’idea dell’Europa come un costante esercizio di «traduzione», come estensione del dialogo costituzionale «interno» a ciascuno degli Stati europei per comprendervi anche le nuove «arene transnazionali» di governo, concepite come «luoghi di mutuo apprendimento». Europolis potrebbe fondarsi, in tal mondo, su «una sfera pubblica europea come molteplicità di dialoghi civici interculturali in continuo sviluppo».
6. In sintesi, la prospettiva europea mira a introdurre, pur con ondeggiamenti e involuzioni, un nuovo paradigma relazionale in grado di sostituire o quanto meno includere in una dimensione più ampia i parametri dominanti della forza da un lato e degli interessi dall’altro; entrambi rivelatisi miopi, improduttivi e persino controproducenti.
Non è per nulla un progetto velleitario; basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo è realistico, ma anche urgente e necessario. La nuova governance globale di cui tanto si parla, ma di cui sinora poco si è visto, può rappresentare un’occasione unica.
Dominique Moïsi ha recentemente scritto sulla «geo-politica delle emozioni» - la paura, la speranza e l’umiliazione – abbinandole (al netto dei casi «misti» o indecidibili) a determinate regioni del globo. Mentre vaste regioni, quali ad esempio il Medio Oriente inteso in senso ampio e la stessa Africa, soffrono ancora delle conseguenze di «umiliazioni» subite nel corso della loro storia, è l’Asia, pur nelle sue profonde contraddizioni e divisioni, a nutrire la «speranza» nel futuro. In questo quadro geo-emozionale, l’Occidente appare dominato dalla «paura» e dall’ossessione della sicurezza. In questa chiave potrebbe essere interpretata anche la crescente indisponibilità di molti Paesi membri dell’Unione ad accogliere altri candidati, a cominciare dalla Turchia e includendo tutta la travagliata regione balcanica. Dietro l’asettica terminologia tecnica (si parla dell’«enlargement fatigue») si celano una serie di questioni irrisolte che vengono presentate sotto il profilo di intrattabili questioni «civilizzazionali» ed identitarie, ma che coinvolgono più concretamente e prosaicamente gli equilibri di potere interno all’Unione, che inevitabilmente l’ingresso di un Paese come la Turchia modificherebbe in modo sensibile (sia in termini di ponderazione di voti al Consiglio dell’Unione Europea, che come numero di parlamentari europei eletti in Turchia). In ogni caso, «il nucleo dell’identità europea deve essere trovato (…) nella crescente riflessività entro identità collettive europee» , vale a dire in un processo politico complesso, non concepito solo come cerchi concentrici che si allargano progressivamente dal «locale» al «continentale», ma anche come linee integrative trans-societarie aperte e pluraliste, basate sul concetto di democrazia deliberativa. Tale modello «è aperto alla differenza e accoglie la contestazione permanente, e non ha bisogno di escludere “l’altro” per riuscire a stabilizzarsi» .
Sappiamo – ed è lo stesso Moïsi a segnalarlo - che la realtà è molto più complessa di una netta ripartizione geografica delle «emozioni», e che questi sentimenti sono compresenti nelle diverse aree del mondo, pur con una mistura diversa. Per fare della speranza un’«emozione» universale, c’è bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un «new deal» globale, una nuova alleanza più inclusiva e paritaria, che vada ben oltre le alleanze economiche e militari esistenti. Ma ciò si può fare solo adottando una strategia inclusiva nella distinzione, operando una «sintesi disgiuntiva» fondata non solo sull’«universalismo della differenza» , ma sull’elemento centrale delle relazioni internazionali contemporanee, che è «rendere giustizia alla differenza» , cioè fare spazio alle ragioni dell’altro. Più che di un diritto alla differenza, si tratta del diritto a differire. Come rendere compatibile la pluralità che ne deriva con le ragioni compaginative ed unitarie, è forse la vera grande sfida europea, il nuovo contributo che l’Europa può dare ad un mondo stretto tra le incongruenze di una globalizzazione senza universalità e di una ricerca identitaria che prescinde dall’alterità o la considera in termini di estraneità oppositiva. Dalla risposta a questo dilemma dipende non solo il destino europeo - nel senso letterale della destinazione, della meta del suo progetto politico integrativo e dialogico - ma anche, in buona parte, del pensiero europeo, concepito come l’incessante tentativo di articolare l’uno e il molteplice, l’identità e la differenza.