In Egitto l’involuzione del contesto politico negli ultimi mesi ha assunto un’accelerazione tragicamente spettacolare. Piazza Tahrir è passata dall’essere il teatro della celebrazione della libertà al luogo di un rassemblement di variegate forze di opposizione per la “liberazione nazionale”. E’ stupefacente come l’ostinazione e la chiusura al dialogo politico di Morsi e dei Fratelli Musulmani – che comunque hanno legittimamente vinto, sia pure con un ristretto margine, le prime elezioni presidenziali libere dopo la caduta del “faraone” Mubarak -abbiano trasformato la fase decisiva della stabilizzazione democratica in una deriva maggioritaria dai risvoltipseudo-autoritari. Il “miracolo egiziano”, e cioè l’avverarsi di una rivoluzione ritenuta impossibile, rischia di divenire ilprosaico ritorno a un passato non certo glorioso. Il percorso dell’Egitto contemporaneo da Nasser a Piazza Tahrir, passando per l’assassinio di Sadat, è stato in realtà caratterizzato da un ruolo dell’esercito che non riguarda solo gli aspetti di sicurezza nazionale e di difesa. Durante la lunga era di Mubarak (1981-2011) l’esercito era progressivamente divenuto, oltre a una macchina di controllo dell’islamismo militante, un complesso militare-industriale-economico con una vasta articolazione di attività che solo indirettamente erano collegate alla dimensione di sicurezza. Un “business a guida militare”, presto denominato “milbus”. Queste condizioni strutturali, che hanno caratterizzato, in buona misura, anche l’Egitto post-Mubarak, si sono incrociate con una politica scarsamente pluralista e lungimirante di Morsi, provocando il pronunciamento dell’esercito che – come avviene regolarmente in questi casi – è giustificato con la necessità di “difendere il popolo”. Morsi ha voluto trincerarsi a lungo, in questi mesi, dietro l’argomento della legalità del suo mandato e del diritto-dovere di esercitare il mandato presidenziale nella direzione auspicata dal suo elettorato. Tuttavia, mai come nei processi di consolidamento democratico è importante associare alla legalità anche la legittimità, e cioè il vasto riconoscimento del ruolo del Presidente come garante di tutto un popolo e non solo come esecutore materiale della volontà di una parte dell’elettorato, sia pure prevalente. L’esito drammatico della sua Presidenzanon costituisce ancora il fallimento della più importante delle “primavere arabe”, ma è quanto meno la riprova dell’impreparazione e dell’improvvisazione con cui l’islamismo politico è giunto al potere in Egitto, dopo decenni di marginalizzazione e di esclusione dal sistema politico. Piazza Tahrir non è mai stata una piazza islamista; semmai una piazza entusiasticamente ribellista. Non aver saputo interpretare questo fondamentale dato, prima di tutto sociale, ha condannato l’Islam politico – specie nel caso di Fratelli Musulmani – a un progressivo distacco dal Paese dal sapore paradossale, perché avvenuto proprio quando esso avrebbe avuto la possibilità di dimostrarsi un’affidabile forza di governo e un punto di riferimento per la rinascita nazionale.L’isolamento nel quale è venuto a trovarsi Morsi negli ultimi giorni, con l’abbandono della compagine di governo da parte dei ministri più qualificati, è l’icona di una parabola che si sarebbe potuto e dovuto evitare. Il primo governo a guida islamica dell’Egitto contemporaneo rischia di essere così associato alla chiusura delle prospettive di trasformazione delsistema politico egiziano in una direzione di maggior partecipazione e apertura democratica. Le ripercussioni della nuova crisi egiziana potrebbero essere enormi, e spingersi fino alla guerra civile siriana, nella quale le forze lealiste invocano proprio il ruolo dell’esercito quale baluardo contro il radicalismo islamista. Senza contare le incognite sul piano regionale, con il possibile cambio al vertice in un Paese chiave. Con un’avvertenza non secondaria: il mito della “stabilità autoritaria” potrebbe rivelarsi tale anche per un Egitto che dovesse tristemente tornare sotto il controllo militare.