Sarebbe ingeneroso, oltre che scorretto, imputare quanto
accade in Egitto e - nonostante le profonde differenze - in Siria e in Tunisia
a una mancanza di attenzione del mondo euro-occidentale. Con le rivoluzioni arabe
si è innescato in Nord Africa un
processo sociale e politico che nessuno sembra davvero in grado di prevedere o
controllare. Non lo controllano le piazze, ma non lo controllano nemmeno le
piazzeforti. Quando un esercito interviene con metodi pseudo-militari contro la
propria popolazione, è un segno non solo di
debolezza, ma anche della mancanza di una strategia di medio-lungo termine, al
di là della conservazione del
potere. Sarebbe tuttavia altrettanto fuorviante sostenere che la comunità internazionale ha
davvero fatto tutto quanto era politicamente in suo potere per sostenere le
transizioni con massicce iniezioni di fiducia e apertura di credito. Investire
politicamente in Paesi che tentato d trovare una propria strada alla democrazia
è sempre rischioso, ma c'è da chiedersi se non sia più rischioso non farlo. La prudenza se non il sospetto hanno
dominato in larga misura l'atteggiamento dell'Occidente nei confronti dei
rivolgimenti nel mondo arabo-islamico. E' anche vero che tali processi si sono
manifestati in un momento critico per le relazioni internazionali, a causa
soprattutto della crisi finanziaria in Occidente e alle pesanti conseguenze sul
tessuto sociale, economico e politico-istituzionale. C'è poco spazio per le relazioni internazionali se esse sono
percepite come una sorta di lusso che non ci si può permettere quando si hanno dinanzi questioni ben più pressanti e cruciali, che in qualche misura mettono a
rischio un intero modello di sviluppo.
Tuttavia l'ipotesi della "distrazione" rischia di
essere superficiale e di non cogliere il vero nocciolo della questione, che non
riguarda solo il mondo arabo-islamico, ma tutte le società in fase di transizione o di consolidamento democratico, o
quelle che faticosamente emergono da conflitti interni laceranti. Molti sono i
fattori che rendono l'azione della comunità internazionale in gran parte
inefficace rispetto ai conflitti "civili".
La prima ragione risiede nella stessa natura di tali
conflitti, molti diversi dalle guerre del passato. Qualche decennio fa,
riferendosi alle guerre intestine nei Paesi della ex-Jugoslavia, Mary Kaldor
propose il paradigma delle "nuove guerre": conflitti non più inter-statali, ma crisi interne che ben presto si
internazionalizzano, diventando trans-nazionali. Inoltre le "nuove"
guerre sono di carattere identitario, non patrimoniale, e pertanto destinate ad
essere combattute con maggiore determinazione, con poco spazio per il
negoziato.
C'è però un altro motivo che rende inefficace l'intervento
politico-diplomatico, e cioè la contraddizione, ormai
patente, tra due principi fondanti dell'ordine internazionale, che possiamo
sintetizzare facendo riferimento a due documenti internazionali: da una parte,
la Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il dogma dell'inviolabilità della politica interna, della "giurisdizione
domestica" e che fa della sovranità un baluardo contro ogni
ingerenza esterna; dall'altra, la Dichiarazione dei diritti umani fondamentali,
che invece pone al centro di ogni azione politica internazionale la dignità della persona umana e le libertà individuali. I tentativi di superare questa imbarazzante
dissonanza si sono rivelati sinora di limitata efficacia, nonostante la
creazione della Corte penale internazionale e la più recente configurazione di una "responsabilità di proteggere" facente capo proprio alla comunità internazionale.
Tutto ciò rende riduce notevolmente le
possibilità di influenza, a meno che non
si pretenda di risolvere ogni crisi interna o internazionale con un intervento
militare, più o meno legittimato dalle
istituzioni multilaterali.
Realisticamente, e nonostante il sostanziale cambiamento
degli equilibri mondiali in corso, esistono solo due attori internazionali in
grado di svolgere quanto meno un ruolo di persuasione nella direzione del dialogo
e del negoziato, vale a dire l’Unione Europea e gli Stati
Uniti. L’Europa, in particolare,
dovrebbe finalmente varare un disegno complessivo di stabilizzazione, di
sviluppo e di partenariato nel Mediterraneo. Se prima era una scelta, oggi è una necessità.