Improvvisamente – notano gli esperti dello “European Council on Foreign Relations” - l’attenzione dei principali attori internazionali riguardo alla crisi siriana è concentrata sull’uso delle armi chimiche da parte delle forze fedeli ad Assad. Nella strategia globale americana, e mediorientale in particolare, la “linea rossa” sulle armi di distruzione di massa è diventata una costante: non a caso, la motivazione principale dell’intervento in Iraq risiedeva proprio nell’accusa mossa al regime di Saddam Hussein (rivelatasi in gran parte infondata) di possedere un arsenale di tale natura e di avere usato armi chimiche almeno in un paio di occasioni (prima nel conflitto contro l'Iran, poi contro la popolazione curda del nord dell’Iraq). Ma prima di lanciare azioni belliche, variamente configurate, c’è bisogno di tutto il tempo necessario per accertare, tirare conclusioni, decidere sulle opzioni.
Ad Hans Blix, il capo degli ispettori delle Nazioni Unite nel 2003, non fu consentito di portare al termine il lavoro di verifica sulle presunte armi di distruzione di massa. Non ripetiamo, perciò, gli errori del passato.
Inoltre, senza ovviamente negare la rilevanza cruciale che assume la questione delle armi chimiche sotto il profilo umanitario, giuridico, etico e strategico, si rischia tuttavia di non affrontare le cause profonde del conflitto, in cui la stragrande maggioranza delle vittime è stata determinata, sinora, da altre armi e altre situazioni. Le operazioni che sono allo studio a Washington si configurano infatti non solo come limitate nella loro portata militare, ma anche nella loro natura politica. L’eventuale intervento si configurerebbecome meramente “punitivo”, assumendo che esso non implichi un immischiarsi nel ginepraio siriano.
La questione dell’intervento, a parte la sin troppo ovvia necessità di una specifica autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza affinché possa ritenersi legittimo (i surrogati di un’eventuale “luce verde” della NATO o del consenso politico di una coalizione dei volenterosi hanno scarso valore in tale senso), deve fare i conti con considerazioni di reale utilità e soprattutto con gli effetti non previsti o non desiderati. Le operazioni militari prospettate non intaccherebbero in nulla il nocciolo del conflitto siriano, che è diventato intrattabile proprio perché è l’esempio paradigmatico e cruento di una guerra civile internazionalizzata. In Siria avviene infatti uno scontro per procura tra le potenze regionali, in primo luogo l’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah (che sostengono Assad) e sull’altro versante, dalla parte dei ribelli, l’Arabia Saudita e la Turchia (pur con referenti interni assai diversi). Una “guerra fredda” arabo-persiana allargatasi sino a divenire un confronto a tutto campo tra Sunniti e Sciti (con le varie denominazioni che fanno capo a queste due versioni dell’Islam). Viene sottolineato dagli analisti come la lezione inferta ad Assad avrebbe in realtà la valore di un “avvertimento” all’Iran per la complessa questione del suo programma nucleare.
Questa dimensione al contempo interna, transazionale e internazionale del conflitto siriano richiederebbe, invece, una strategia complessiva articolata in più fasi, che comportasse, assieme a un negoziato tra le parti“locali” sostenuto internazionalmente (come nella iniziativa di Ginevra), anche un binario regionale, incoraggiato da tutti gli attori esterni, e in primo luogo gli Stati Uniti.
Quanto agli effetti imprevisti e indesiderati troppo spesso – come ha osservato il Ministro Bonino – i conflitti asseritamente limitati si trasformano in operazioni prolungate e talvolta illimitate. La fase successiva a un eventuale intervento “chirurgico” in Siria potrebbe innescare una recrudescenza del conflitto per il potere interno (i “ribelli” rappresentano tutt’altro che una formazione monolitica), potrebbe provocare un collasso della Siria come entità statale (si pensi alla questione curda, che spiega in parte anche il coinvolgimento politico di Ankara), potrebbe segnare l’avvento di un lungo periodo di instabilità e di lotte intestine mescolate all’interventismo indiretto di potenze straniere.
Come per le operazioni chirurgiche a rischio, anche per quelle militari, prima di procedere, ci vorrebbe da parte di tutti un “consenso informato”.