Hassan
Rohani, nuovo presidente della Repubblica islamica dell'Iran, sostiene di aver
ricevuto, con la sua investitura elettorale, una sorta di mandato negoziale
popolare nei riguardi dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare. Se si
vuole, si tratta di un’interessante “forzatura”, di cui sarebbe irragionevole
non cogliere le potenzialità. Il rischio
è che Rohani venga a trovarsi nelle stesse condizioni in cui si trovò Khatami
nel corso del suo secondo mandato presidenziale (2001-2005), e cioè a lanciare
offerte di collaborazione non corrisposte e pertanto politicamente
indifendibili in termini di politica interna. D’altra parte, Khatami –
ritenuto, superficialmente, una sorta di Gorbachov persiano - sostenne, senza
convincere troppi, che il programma nucleare avviato dall’Iran aveva scopi
esclusivamente civili.
La
storia della “policy review” (cioè della revisione di strategia) dell’Occidente
nei confronti dell’Iran è lunga, anche se i frutti sono stati, generalmente,
scarsi. Obama provò a cambiare registro con il discorso «al popolo e al Governo
iraniano», tenuto il giorno del Nowruz, il 20 marzo del 2009. L’intervento del
Presidente fu fortemente centrato sul concetto del rispetto tra i due Paesi e
sul ruolo che l’Iran può avere sul piano regionale facendo emergere, almeno
nelle intenzioni, una rottura rispetto non solo alla precedente
Amministrazione, ma al complesso delle relazioni USA-Iran dopo la Rivoluzione del
1979. La risposta dell’Iran di Ahmadinejad fu a dir poco deludente. I negoziati
sul programma nucleare di Teheran – condotti con l’Iran nel formato 5+1, e cioè
Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia a Germania - si sono
sviluppati in una lunga serie di incontri che hanno fatto registrare pochi
progressi. L’intervento di altri Paesi, come quello tentato da Turchia e
Brasile nel 2010, hanno prodotto una sorta di cortocircuito che ha reso la
matassa ancora più aggrovigliata.
Ci
troviamo, con la Presidenza Rohani, a un punto di svolta? Certamente sono
cambiati i toni, il che non è poco, in una regione del pianeta – come quella
del Medio Oriente – dove la retorica può facilmente far scattare una scintilla
fatale. Tuttavia la distensione dei toni politici è condizione necessaria, ma
non certo sufficiente perché si avvii un reale “dialogo critico” su tutte le
questioni sospese: a parte il programma nucleare, c’è la tensione con Israele,
il sostegno a Hezbollah e a Hamas, l’appoggio ad Assad, il pericoloso confronto
con Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi. Per non menzionare la transizioni
tuttora aperte e ben lungi dall’essere concluse in Iraq e in Afghanistan. E’ interessare osservare come alla percezione
occidentale di una “minaccia” iraniana a tutto campo corrisponda un’uguale e
simmetrica sensazione di “accerchiamento” da parte dell’Iran. Durante la fase
più acuta delle operazioni militari americane in Iraq e in Afghanistan,
politologi sagaci solevano ripetere, tra il serio e il faceto, che l’Iran
confinava, a oriente e a occidente, con gli Stati Uniti. L’Iran ha, a livello regionale, un ruolo politico
e strategico oggettivo, ma non può certo coltivare progetti egemonici, non
avendo, in realtà, le “capacità” militari ed economiche per poterli sostenere
nel lungo periodo. L’Amministrazione
americana, nel corso degli anni 2000, ha alternato alle politiche di “cambio di
regime” a Teheran aperture di negoziato su questioni specifiche (per esempio,
lotta comune al narcotraffico), all’approvazione di sanzioni sia nei consessi
multilaterali che unilaterali. E’ difficile vedere in questa serie di misure
una strategia coerente.
Le aperture
di Rohani vanno lette nel contesto della storica ricerca di un “riconoscimento”
da parte di Washington dell’Iran come interlocutore diretto, e non per il
tramite di formati negoziali che ne diluiscano la rilevanza. Se questo è il
prezzo da pagare per costruire condizioni di praticabilità non dico della pace,
ma quanto meno di una “tregua prolungata” nel martoriato Medio Oriente, forse,
pur nella consapevolezza del rischio,
varrebbe la pena pagarlo.