Sul numero del 5 marzo è pubblicato un mio articolo:
La diplomazia flessibile
di Pasquale Ferrara
Non chiamatela riforma, ma adeguamento dinamico. Al di là del politically correct, è davvero questo il senso vero dei «lavori in corso» avviati nei Ministeri degli Esteri ai quattro angoli del globo. Se si dovessero riassumere in due parole-chiave le sfide poste alle istituzioni preposte alla politica estera, dovremmo dire che le strutture rigide non riescono più a gestire i crescenti ed interconnessi flussi di informazioni, risorse, finanze, persone. Storicamente, i Ministeri degli esteri sono abituati a ragionare per lo più in termini di «hardware» (potere economico e militare) piuttosto che di «software» (comunicazione, informazione, connessione). Detto in altri termini, oggi si tratta di trovare la miscela migliore tre due forze della globalizzazione, da un lato, e della geopolitica dall’altro. La globalizzazione è la proiezione mondiale senza un focus territoriale, la geopolitica è invece espansione ed influenza su base territoriale. Vi sono almeno tre fattori che rendono necessario ed urgente svolgere un’approfondita riflessione sull’evoluzione del ruolo dei Ministeri degli esteri. In primo luogo, i nuovi assetti geopolitici e il loro impatto sui fori della governance globale. Il G20, riconosciuto a Pittsburgh come il principale foro per la cooperazione economica internazionale, è destinato a catalizzare il dibattito sui temi globali quali il cambiamento climatico, lo sviluppo, la sicurezza alimentare: tutte questioni «non tradizionali» di politica estera. E dunque si pone ad esempio il problema della partecipazione delle strutture dei Ministeri degli esteri alla preparazione del G20, che nasce invece principalmente come foro economico-finanziario. Proprio la crisi finanziaria mondiale ha messo in luce la necessità di una guida politica (anche nel senso di politica internazionale), rendendo evidenti i limiti di un approccio solamente tecnico alle tematiche globali. In secondo luogo, occorre adeguarsi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con una nuova dimensione esterna dell’Unione Europea, e soprattutto con la creazione di un Servizio Europeo di Azione Esterna (in pratica, un corpo diplomatico europeo comune). In terzo luogo, vi è la crescente internazionalizzazione dei cosiddetti «ministeri tecnici», che svolgono in modo sempre più frequente ed incisivo per proprio conto attività di rilievo internazionale. Negli Stati Uniti, presso il Dipartimento di Stato, è in corso la Quadrennial Diplomacy and Development Review (QDDR), un modo di riformulare anche la stessa organizzazione della diplomazia americana sulla centralità della partnership internazionale per lo sviluppo economico in senso ampio, anche per rispondere in modo strutturale all’insicurezza sistemica sulla scena mondiale. Come si sono attrezzati, in particolare, i Ministeri degli Esteri europei? La tendenza generale va nella direzione della centralità dell’approccio tematico, senza ovviamente cancellare la dimensione geografica. Ma l’esigenza fondamentale è quella di inserire fattori di coerenza sistemica nella stessa concezione della politica estera, che non possono che essere forniti da una visione d’insieme piuttosto che da una strutturazione troppo segmentata o specialistica. E’ un po’ come se dalle nebbie medievali riemergesse con fattezze post-moderne l’idea (epistemica) di universitas rispetto a quella (territoriale) di respublica nazionale. L’Ecumene piuttosto che il Nomos der Erde di Schmitt. Tra gli Europei, il Foreign Office si è organizzato attorno a sei direzioni generali tematiche, le più importanti delle quali sono «Europa e Globalizzazione», «Difesa e intelligence»; «Politica» (internazionale). La Francia ha adottato un modello analogo; il Quai d’Orsay ha creato, tra le altre articolazioni, una Direzione Generale per gli Affari Politici e di sicurezza (che comprende le direzioni «geografiche») e una Direzione Generale per gli Affari Globali (con competenze «orizzontali»). In Germania il processo di trasformazione («change process») è appena iniziato, ma le problematiche da affrontare sono sostazialmente simili a quelle dei principali partners europei. E l’Italia? Anche da noi è in atto un processo di ristrutturazione. Il Consiglio dei Ministri ha approvato in prima lettura lo scorso 17 dicembre un progetto di DPR sulla riorganizzazione della Farnesina. Le scelte operate sono sostanzialmente in linea con quelle dei principali Paesi europei. Oltre a due direzioni «tecniche» (per le risorse e l’innovazione e per l’amministrazione, l’informatica e le comunicazioni) e a due direzioni consolidate (italiani all’estero e politiche migratorie; cooperazione allo sviluppo) sono quattro le direzioni generali caratterizzanti del cambiamento: affari politici e di sicurezza, mondializzazione e questioni globali, Unione Europea, promozione del sistema Paese. Le competenze geografiche (esclusive e non ripartite) sono state inserite all’interno della direzione per gli affari politici e di quella per la mondializzazione e le questioni globali. Prima del 2000, nella struttura della Farnesina (organizzata per materie) vi erano ripetizioni, sovrapposizioni e conseguenti competizioni tra gli uffici geografici. Poi intervenne la riforma «pan-geografica» del 2000, che rappresentò un’innovazione importante. Il cambiamento attuale pare voler trarre lezioni dai due assetti precedenti. E’ la soluzione perfetta? Il mondo contemponeo è talmente complesso che appare una mera chimera volerlo inseguire con opzioni «definitive». La diplomazia del futuro sarà di tipo flessibile e creativo; se i Ministeri degli esteri ne assicurano le condizioni d’esercizio, è già un ottimo risultato.