Obama, tra Jefferson e Wilson
Può un evento di politica interna, per quanto rilevante, per quanto avvenga nel più influente Paese del mondo, produrre cambiamenti nella politica internazionale? In un mondo sempre più interconnesso, in teoria la risposta è positiva. Ma nel caso della riforma sanitaria, tenacemente voluta da Obama e faticosamente approvata dal Congesso americano, siamo dinanzi ad un «case study», un caso di scuola. L’approvazione della riforma, anche dinanzi all’opinione pubblica mondiale, rafforza in effetti un Presidente impegnato in un estenuante sforzo di «democrazia deliberativa», nel tentativo di convincere gli oppositori - parlamentari e opinionisti – almeno a riconoscere le fondate ragioni di un intervento necessario e ormai divenuto urgente, specie a seguito delle conseguenze sociali della crisi economico-finanziaria negli Stati Uniti. Obama sembra volere utilizzare in politica interna come in politica estera un approccio argomentativo – «dialogico», direbbe Habermas – i cui esiti sono sempre incerti e i cui oneri sempre ingenti, ma i cui risultati, un volta conseguiti, assai più stabili di quelli ottenibili col decisionismo puro o l’assertività unilaterale. Con costi sinora elevati: Obama è stato descritto, forse troppo frettolosamente, come «the talker, not the doer», e cioè come un Presidente della retorica, non dell’efficacia. L’approvazione della riforma - forse il momento più qualificante e delicato di questa prima parte della sua Presidenza, per l’investimento politico rischioso che Obama aveva fatto su di essa - cambia strutturalmente questo dato. In linea di principio, ci sono due modi di intepretare le vicende politiche di un Paese. Il primo, legato alla cronaca ed agli equilibri politico-elettorali, si limita a descrivere gli assetti di potere e le loro possibili configurazioni ed evoluzioni. Il secondo, meno immediato, tenta di comprenderle alla luce della cultura politica, e cerca di cogliere segnali di continuità o di cambiamento strutturale, tendenze di lungo periodo, fattori di trasformazione ed evoluzione. L’approvazione delle riforma sanitaria negli Stati Uniti rappresenta, da questo punto di vista, un caso emblematico. Agli occhi degli Europei sembra incomprensibile l’opposizione, manifesta o latente, che il progetto di riforma di Obama ha incontrato nell’opinione pubblica, prima ancora che nelle file dei repubblicani. E’ ben nota la diffidenza dell’americano medio (il «common man») nei confronti del big Government, cioè verso un’Amministrazione invasiva dell’inviolabile recinto dei diritti e delle libertà individuali. Può sembrare persino ridicola – se non fosse, invece, seriamente sostenuta da autorevoli commentatori - l’accusa ad Obama di voler trasformare gli USA in un Paese «socialista», nel momento in cui si approva una riforma sanitaria che si muove all’interno del mercato privato delle assicurazioni e che non contiene nemmeno la cosiddetta «public option», vale a dire la possibilità di una copertura pubblica delle cure mediche. Accanto al radicamento dell’individualismo liberale, grande influenza assume anche l’assetto politico-istituzionale di tipo fortemente federalista, geloso dei diritti degli Stati nei riguardi di decisioni politiche assunte centralmente a Washington. Nell’uno come nell’altro caso, tradizionalmente per gli Americani – o almeno per una buona parte di essi – lo Stato rappresenta il problema, non la soluzione. Obama ha dovuto pertanto farsi strada a fatica nel fuoco incrociato dell’anti-assistenzialismo e dell’anti-statalismo. Ma già la crisi economica aveva prodotto un ripensamento, anche negli Stati Uniti, del ruolo dello stato, il cui interventismo è stato fondamentale per mitigarne i contraccolpi sia finanziari che sociali. In una famosa analisi sulla politica estera americana, Walter Russell Mead identifica quattro scuole di pensiero, che fanno capo ad altrettanti Presidenti americani: quella hamiltoniana, quella wilsoniana, quella jeffersoniana e, infine, quella jacksoniana. Si tratta di quattro modi fondamentali di considerare la politica estera, ma che riguardano anche importanti aspetti di politica interna. Gli hamiltoniani sono mossi dalla convinzione della necessità di un’alleanza strutturale tra governo nazionale e grande business e propugnano, in politica estera, il primato economico americano. I wilsoniani sono caratterizzati da un più accentuato slancio ideale a favore di un ruolo attivo di Washington per un ordine mondiale cooperativo, giusto, pacifico. I famosi neo-cons dell’epoca di George W. Bush propugnavano, in fondo, una versione «aggressiva» di wilsonismo. I jeffersoniani sono più proiettati verso la politica interna e sul rafforzamento delle libertà e delle opportunità nella società americana, in un’ottica partecipativa, e molto prudenti e «moderati» in politica estera. I jacksoniani, di indole marcatamente populista, considerano centrale la tematica della sicurezza interna ed esterna del popolo americano, sia in termini di incolumità che di benessere economico individuale. Se questo è lo scenario di riferimento, potremmo dire che la riforma sanitaria offre ora ad Obama, in qualche misura, la possibilità di una saldatura tra le due principali «anime» della sua Presidenza: quella jeffersoniana e quella wilsoniana.