In queste ore si accentua la sensazione di un “accerchiamento” di Gheddafi, non tanto per i progressi militari o per un’accelerazione delle operazioni dei “ribelli” sul terreno (pur apprezzabile), quanto per una brusca accentuazione del processo di disgregazione interna del regime. Il controllo delle citta’ di Zlitan, Surman e Brega può effettivamente marcare una svolta, perché in tal mondo si interrompe una importante linea di rifornimento per le forze di Gheddafi. Inoltre, la defezione dell'ex numero due del regime, Abdel Salam Jalloud, uno dei compagni di Gheddafi nelle rivoluzione del 1969 acquista un significato politico innegabile.
Ciò detto, non credo sia mai stato in dubbio l’esito “militare” delle vicenda libica. E dunque la questione non è la debellatio. Lo squilibrio delle forze è tale che non ci possono essere illusioni di “resistenza” da parte del regime. La questione vera è se la crisi libica possa o meno trasformarsi in una sorta di conflitto a bassa intensità, con diffusa instabilità politica anche dopo la “vittoria” del Consiglio Nazionale Transitorio. Gli interventi militari di stabilizzazione devono infatti affrontare la questione cruciale di tutti i conflitti, e cioè cosa fare una volta che le ostilità sono giunte al termine. Tutte le guerre, senza eccezioni, si “vincono” davvero non tanto sul campo, ma in due momenti successivi: alle conferenze di pace e nei processi di riconciliazione nazionale. I conflitti mondiali del Novecento hanno confermato la verità di questo assunto, nel bene e nel male. Le operazioni militari in Iraq ed Afghanistan ne sono la riprova nel XXI secolo. Ora, ciò che impressiona nell’atteggiamento della comunità internazionale in relazione alla vicenda libica è l’adozione di un approccio che potremmo definire “incrementale” ed empirico. In altri termini, non pare che ci sia stato mai davvero un “piano” politico e diplomatico per la fase successiva ai bombardamenti della NATO ed alle incursioni dei ribelli di Bengasi. Anche il riconoscimento ufficiale del Consiglio Nazionale Transitorio è avvenuto dopo molte settimane dall’inizio delle ostilità ed in modo scoordinato. Molti osservatori hanno criticato l’avvio delle operazioni militari in Libia mettendone in risalto la mancanza di adeguata preparazione. C’è una parte di verità in tali critiche, ma la questione vera riguarda, in realtà, la mancanza di preparazione politica del “dopo”.
Ora, è evidente che negli interventi di stabilizzazione la questione della conferenza di pace internazionale è tutto sommato secondaria, dal momento che sono all’opera delle coalizioni più o meno coese che tengono regolarmente dei vertici, che adottano conclusioni spesso “ecumeniche” che è difficile tradurre in politiche concrete. Dunque la questione vera concerne l’eventuale percorso di riconciliazione nazionale. Lo abbiamo visto in Afghanistan: dopo anni di rifiuti e veti reciproci, si comprende che senza un contesto di riavvicinamento delle fazioni contrapposte è assai difficile parlare il linguaggio della stabilità politica.
Nel caso della Libia, il tema della riconciliazione nazionale ha fatto capolino qua e là durante questi mesi, ma non pare che sia stata immaginata una strategia coerente ed efficace per arrivarci. A parte l’irriducibilità di Gheddafi, che è un fatto scontato, c’è tuttavia la questione assai più complessa e delicata del nuovo “progetto nazionale” per la Libia. Le tre entità storico-geografiche della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan dovranno trovare un nuovo assetto comune dopo l’unificazione dall’alto compiuta da Gheddafi. Senza contare il ruolo dei raggruppamenti tribali e delle intricate relazioni ed alleanze tra essi.
La posa in gioco è duplice. Da una parte, non pare affatto chiara l’identità nazionale della “nuova” Libia, e quali ne saranno i caratteri costitutivi. Avremo una Libia federale, laica e tollerante, o un Paese dall’incerta configurazione interna, con pulsioni localistiche e separatiste, e tentazioni integraliste? Queste sono le domande difficili che occorrerebbe porsi, e preparare un quadro di interventi e sostegni che possano indirizzare le forze liberate dal dopo-Gheddafi verso la modernizzazione e la democratizzazione. Come sempre, i veri nodi della guerra si nascondono nel dopo-guerra.