La vicenda libica va oggi letta in controluce con i drammatici eventi
della repressione siriana. E' chiaro che la scelta di procedere
all'intervento militare contro Tripoli intendeva costituire anche un
segnale di dissuasione nei confronti di tutte le altre autocrazie,
oligarchie o "democradure" della regione. La circostanza che le
operazioni in Libia non si siano ancora concluse affievolisce, di
fatto, l'effetto di dimostrazione che esse avrebbero dovuto produrre.
Piu' in generale, l'andamento della strana "guerra" libica evidenzia
tutti i limiti del cosiddetto "intervento umanitario" e delle modalita'
di conduzione delle operazioni di "polizia internazionale".
La protezione della popolazione civile, nell'ambito della nuova
funzione delle Nazioni Unite definita "responsabilita' di poteggere",
in regimi forti come quello libico e quello siriano, non puo' avvenire
tramite semplici cambiamenti nel regime, ma deve assumere la portata di
un vero cambiamento di regime. In effetti, dove i rivolgimenti in Nord
Africa hanno avuto successo, sia pur parziale (come in Tunisia e in
Egitto), cio' e' paradossalmente avvenuto grazie a delle "abdicazioni"
piu' che come risultato di autentici processi rivoluzionari classici.
Laddove il gruppo di potere oppone una pervicace resistenza, come a
Tripoli ed a Damasco, il cambiamento deve essere necessariamente
sostenuto dall'esterno. Ma qui iniziano i problemi.
Al punto in cui siamo, e' evidente che la crisi libica ha in qualche
misura provocato due altre "crisi" diplomatiche ed istituzionali:
l'incapacita' dei Paesi membri dell'Unione Europea di formare un fronte
comune in un'area - il Mediterraneo - strategica per l'Europa, ancor
piu' che per gli Stati Uniti; e il coinvolgimento "obliquo", incompleto
e travagliato della stessa Nato, in un'operazione fuori area con
motivazioni diverse rispetto alla sua "ragione sociale", vale a dire la
difesa dell'Europa da minacce esterne di tipo militare. E' vero che
ogni regione ed ogni crisi sono diverse, ma tutto questo non fa che
rendere piu' impervio il tentativo europeo di esercitare una sorta di
generale "potere normativo" nel Mediterraneo, cioe' incanalare le
proteste, rivolte e para-rivoluzioni che agitano il mondo arabo verso
transizioni ordinate e "governate".
A ben guardare, l’aspetto piu’ disarmante e in fondo sorprendente
dell’appoccio euro-occidentale nei confronti dei cambiamenti in corso
nel mondo arabo e’ un certo modo di procedere improntato alla routine.
C’e’ in fondo un parallelismo con l’impostazione data alla crisi
finanziaria in Grecia: una sostanziale sottovalutazione, salvo poi
accorgersi che si e’ piombati in piena emergenza. Nelle speculazioni
finanziarie come in politica internazionale, l’allerta precoce e’ gia’
una prima risposta alle crisi. Anche per evitare di trovarsi dinanzi a
scelte inevitabili e drammatiche.
L'Italia soffre, in questo scenario gia' fin troppo complesso, non
tanto per la nota questione dell’amicizia (per la verita'
reciprocamente interessata) tra Roma e Tripoli, quanto piuttosto per
non aver potuto giocare le sue carte tradizionali, che sono
storicamente quelle della diplomazia piu' che quelle militari, proprio
nel punto di snodo piu' critico delle relazioni tra Europa e
Nordafrica. La Libia rappresentava questo snodo, e lo avevano compreso
anche Parigi e Londra. In ogni caso, per uscire dal potenziale pantano
libico, occorrera' presto o tardi tornare alla politica, come pare gia'
avvenga da qualche settimana, nonostante le bombe alleate ed i missili
libici. D’altra parte, sarebbe velleitario continuare a parlare
unicamente di un “ruolo italiano” nella crisi libica, allo stesso modo
come sarebbe vano evocare un “ruolo francese” o un “ruolo spagnolo”. O
l’Europa si decide a muoversi in modo concertato e coeso, oppure queste
crisi segneranno in modo sempre piu’ accentuato il drastico
ridimensionamento delle sue proclamate ambizioni internazionali.