La formazione di governi “tecnici” in Paesi europei, la riproposizione di “parametri” economici come priorità assoluta dei programmi politici, il dominio transnazionale di agenzie di valutazione economica hanno fatto parlare di “sospensione della democrazia”. La selezione avrebbe avuto la meglio sulla elezione. L’Europa è, ancora una volta, l’epicentro di tale tensione; da questo punto di vista, il Vecchio continente torna ad essere un laboratorio, benché molte delle fattezze della traslazione del potere mondiale in altre aree abbiano fatto pensare ad un destino da “museo”, e non solo per la crisi dell’eurozona.
Volendo semplificare al massimo la situazione attuale, potremmo dire che abbiamo uno strumento altamente "federale" come la moneta unica, ma non un'istanza di politica economica di tipo federale, al di là della funzione tecnocratica della BCE. L'Unione economica e monetaria cui aspira in teoria l'Europa è in realtà una limitata unione commerciale e regolamentare (il 'Mercato Unico') e un insieme di criteri quantitativi e statistici per l'adozione e la gestione di una valuta condivisa. Negli anni '70 e '80 dello scorso secolo l'utopia della "repubblica europea", coltivata da circoli di "illuminati", aveva fatto sorgere la speranza di un'Europa politicamente unita. Quella utopia era poi naufragata negli anni '90 e nel primo decennio del XXI secolo sotto i colpi di una crisi di consenso dell'idea europeista e per le miopi tendenze alla "rinazionalizzazione" delle politiche europee. La famosa espressione "my money back" (ridatemi i miei soldi) pronunciata da una ultranazionalista Margaret Tatcher a proposito del bilancio europeo ha conosciuto una sua versione politica generalizzata, che ha portato in buona sostanza al naufragio del progetto di costituzione europea. Quello che abbiamo oggi, infatti, nel Trattato di Lisbona, nascosto tra le pieghe del pur legittimo "principio di sussidiarietà" è, in fondo, l'equivalente, in termini di competenze, della ostinazione nazionalista tatcheriana. Basti leggere l'articolo 5 del Trattato, che afferma senza mezzi termini né sfumature che "qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri". L'inverso è considerato, dai nazionalismi, regionalismi e localismi di ogni latitudine europea, un sopruso. Salvo poi scoprire, nei momenti più critici, che la salvezza viene proprio dall'Unione. L'ironia dei "sovranismi" è che sono costretti a invocare l'utopia europea "á la carte", per necessità e non per scelta.
Ciò posto, gli interventi delle istituzioni europee di questi ultimi mesi non possono essere semplicisticamente considerati come un "commissariamento" dei Paesi e delle loro classi politiche. La parola più adatta è invece "condizionalità", cioè azioni comuni in cambio di impegni nazionali. Un fatto nuovo per l'Europa, abituata ad adottare standard e criteri politici soprattutto nelle sue relazioni con Paesi terzi.
Ha avuto una certa fortuna, in passato, la teoria del "vincolo esterno". In sostanza, si trattava di un'interpretazione delle storie nazionali più recente dei paesi europei in base alla quale essi si sarebbero dati una certa disciplina, anche politica, oltre che economica, solo in virtù di obblighi contratti in sede internazionale, in particolare atlantica ed europea. Il vincolo esterno era tuttavia anche intrusivo, perché influiva pesantemente anche sui sistemi politici ed economici nazionali: in tal senso hanno in effetti funzionato, ad esempio, la Nato ed i famosi parametri di Maastricht. Sarebbe tuttavia un errore riferirsi alla stessa "dottrina" per spiegare quanto avviene oggi nel sistema politico europeo. La notizia è che non c'è più un "esterno": in quel mondo di regole e discipline varie ci siamo dentro fino al collo tutti noi Europei. Casomai è l'Europa intera a subire il mega-vincolo "esterno" della globalizzazione. Un vincolo che però non sembra ancora fatto breccia sui poteri forti e sugli apparati tecnocratici dei governi nazionali, che fingono tuttora, per convenienza ed interessi di parte (tutt'altro che democratici e popolari) di poter competere in quanto tali con giganti emersi o emergenti come Cina, India, Brasile.
Tale circostanza dimostra, dunque, la necessità di coniugare, e non di opporre, conoscenze tecniche e governo della cosa pubblica. Se è vero che tecnocrazia non può rimpiazzare la democrazia, è anche vero che se la politica non svolge il proprio ruolo, prima o poi è costretta ad adottare soluzioni emergenziali dettate da necessità tecniche. Ed è quello che è avvenuto in Europa, dove la politica ha certamente assicurato governi democratici, ma non sempre essi sono anche stati governi responsabili. La responsabilità nei riguardi del governo politico dell’Euro è stata di tipo omissivo: in altri termini, non si è avuto il coraggio di compiere scelte di lungo periodo, aggrappandosi invece ai quei pochi e malconci brandelli di presunta sovranità nazionale che la globalizzazione ha lasciato nelle mani dei governi europei. La crisi dell’Eurozona dimostra che la sola prospettiva valida per l’Europa non è rifugiarsi nel cortile di casa, ma la condivisione della sovranità per poter dire una parola credibile anche sul piano internazionale.
Il dibattito è tuttavia più complesso e profondo della semplicistica polarizzazione tra tecnocrazia e democrazia. Si tratta di un confronto che attraversa, in buona misura, la stessa storia del pensiero politico, a partire almeno da Platone, per il quale la prima dote dei reggitori della città è la conoscenza rigorosa (episteme). Oggi questa dimensione di declinerebbe in termini di competenza; tuttavia, si dovrebbe trattare, secondo la prospettiva dei classici, di quella particolare forma di conoscenza che tiene conto della polis intera, non delle discipline (o interessi) settoriali. La competenza di chi governa è dunque una competenza olistica, non specialistica; è la phylakiké, la scienza della custodia (del bene comune). I primi socialisti utopisti, come Saint-Simon, immaginarono una configurazione dei pubblici poteri in cui l’amministrazione (tecnica) delle cose avrebbe rimpiazzato la politica, intensa come approccio ideologico alle questioni di pubblico interesse.
La verità è che c’è, oggi, una necessità intrinseca della politica di tener conto della crescente complessità del mondo contemporaneo. In un pianeta globalizzato, la cosa saggia da fare è creare un ponte tra conoscenza pura e conoscenza applicata; detto in altri termini, la riflessione politica e le scelte politiche concrete non possono più restare confinate in due mondi totalmente diversi e non comunicanti.
Un esempio di tale consapevolezza della necessità di pensare in termini pragmatici viene da alcuni recenti riflessioni di scienza politica. In uno studio recente, ad esempio, la dicotomia tra gli approcci tecnocratico e politico è sintetizzato ponendo la contrapposizione tra la Banca Centrale Europea e e le agende politiche interne dei partiti. Ciò che emerge in tali riflessioni è, da un lato, la crescente tensione tra la domanda di rappresentanza, da un lato, e la domanda di “governo”, dall’altra. Detto in altri termini, si tratta della tensione tra la richiesta di tenere conto delle istanze degli elettori/cittadini (responsiveness) e la necessità di adottare scelte responsabili, che tengano conto degli interessi e dei valori complessivi della comunità (internazionale, oltre che nazionale). Maastricht costituisce, sin dalla sua prospettazione iniziale, un nuovo tipo di sfida al sistema politico europeo ed ai governi delle democrazie rappresentative. Tuttavia, non necessariamente deve consolidarsi un contrasto strutturale tra governi rappresentativi e governi responsabili. Esistono senza dubbio segnali di involuzione dei meccanismi di rappresentanza e timori della nascita, proprio nel cuore dell’Europa, di forme di “democrazie senza alternative”, prive cioè di possibilità di scelta, di opzioni di policy rispetto a quelle dettate dalle necessità di assicurare il governo di questioni tecniche che risultano sempre più al di fuori del controllo di singoli Paesi o persino di singole organizzazioni internazionali di tipo regionale o specializzato. Non esistono formule a portata di mano per rispondere adeguatamente a queste nuove sfide; in ogni caso, la nuova consapevolezza di queste tensioni all’interno della teoria politica liberal-democratica costituisce un buon punto di partenza per poterla ripensare su basi meno meccanicistiche e più legate a un insieme condiviso di obiettivi, di strumenti operativi, di presupposti ideali. Un programma che va ben al di là delle riduttive e trancianti polarizzazioni tra fedeltà al consenso politico-elettorale e necessità di approvazione da parte dei mercati.