La proditoria minaccia della Corea del Nord di
sferrare un attacco nucleare agli Usa sta generando tensioni anche in tutto
l’Occidente. Si tratta di una prova di forza credibile o la posta in gioco è di
altra natura? In primo luogo, le ragioni di questa ennesima escalation retorica di Pyongyang vanno
ben al di là di una degenerazione dei rapporti inter-coreani. La questione di
fondo è il programma nucleare che Pyongyang sta usando
da anni con due principali finalità politiche: da un lato, sottoscrivere una
“polizza di assicurazione” contro ogni velleità occidentale di “cambiamento di
regime” ; dall’altro, essere riconosciuta come interlocutore internazionale dalla
comunità internazionale, e in primo luogo dagli Stati Uniti. La “crisi” risale
al 2002, quando la Corea del Nord ha ammesso di perseguire un programma
nucleare militare; da allora, è stato seguito un percorso tortuoso di
negoziati tra sei Paesi: Corea del Nord e del Sud, Russia, Cina,
Giappone, Stati Uniti. La Cina ha ospitato tali negoziati, ma non si era sinora
spesa in modo chiaro, facendo valere la sua influenza storica, geo-politica ed
ideologica su Pyongyang. La situazione sembra però essere cambiata nelle ultime
settimane. La Cina ha infatti votato a favore, in Consiglio di Sicurezza, agli
inizi di marzo, di un nuovo pesante pacchetto di sanzioni contro Pyongyang. Ciò
ha scatenato la reazione scomposta della Corea del Nord, consapevole di un
accresciuto isolamento internazionale. Un’ulteriore
complicazione è costituita dall’inedito atteggiamento della Corea del Sud, che
ha un nuovo leader, Lee Myung-bak. Seul ha infatti reagito, stavolta, in modo “muscolare”,
preannunciando pesanti contromisure militari, qualora se ne determinasse la
necessità. La cosiddetta “sunshine
policy”, cioè l’apertura di Seul in direzione di un percorso di
riconciliazione, sembra oggi un lontano ricordo. Tuttavia non c’è alternativa a
quella del negoziato; non cadere nella “strategia della tensione” di Pyongyang
è una misura di saggezza politica e diplomatica.